Digitale vs Analogico

Dobbiamo stare “al nostro posto” o dobbiamo lavorare per unire le divere competenze, armonizzare le diverse prospettive?

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Un monito a rimanere vigili, perché la diversità di competenze non si trasformi nella trappola della separazione contrappositiva dei settori.

Lo scienziato sta nel suo laboratorio.
Il politico sta al governo.
L’economista sta nella City.
Il panettiere sta davanti al forno.
Lo studente sta a scuola.

Ognuno ha il suo cassetto in cui stia comodo comodo, abbia le sue competenze e veda di non interferire con le attività degli altri! Stai al tuo posto, nella tua specialità, non invadere il mio campo.

Spesso rischiamo di vederla così. Ognuno ha il suo recinto, pressoché impermeabile a quello degli altri; quindi, marchiamo il territorio e nessuno osi oltrepassare il confine di proprietà. Mi verrebbe da dire che adottiamo una prospettiva digitale, dove tutto è netto, codice binario, limiti precisi, nessuna sbavatura.

L’impressione però è che la vita non funzioni così.

Mi verrebbe da dire che la vita sembri più che altro analogica. I bordi sono sbaffati, il codice è multiplo, flessibile, si modifica continuamente, le aree sono ondeggiate, irregolari.

La cassettiera da cui siamo partiti, in realtà, è un colabrodo: dal ripiano di sopra scendono pezzi, da quello di sotto salgono aromi. E nel momento in cui quel pezzo arriva, lo si fa proprio, integrato nel proprio cassetto. Il rimescolio è continuo. Si riconoscono ancora i prodotti dei singoli comparti, ma è tutto molto fluido.

Pensiamo ad un ricercatore che lavora nel suo laboratorio studiando come modificare la vita. Lo può fare soltanto all’interno di una rete internazionale di collaborazioni con finanziamenti di varia provenienza. Una scoperta che prometta mercato verrà adocchiata dall’industria che la convertirà in una linea produttiva. Lo potrà fare però dopo aver superato i controlli di qualità, disposizioni di legge che accolgono a loro volta accordi internazionali, mentre i trattati commerciali filtrano gli scambi di materie prime, distribuzione ecc.

Alla fine, che sia un farmaco o un alimento, arriva nella nostra bocca e si fa nostra carne.

Allora il lavoro dello scienziato nel suo laboratorio ha a che fare con ciò che accade nel mondo, ben oltre la soglia del suo dipartimento. L’intreccio è così stretto ed intersecato che è come essere in un delta, dove le acque si mescolano, siamo in gradienti sfocati su linee ondulate.

Chi studia l’intelligenza artificiale ha il potere di trasformare il mondo, perché contribuisce a costruirne una forma di senso. Noi esseri umani siamo creature molto adattabili. Ci basta una leva per sollevare il mondo, ci basta qualche algoritmo per capovolgere i presupposti su cui fondiamo le interazioni tra di noi: ed eccoci nelle bolle asfittiche dei social. Dalla domotica all’enhnacement sensoriale, la libertà si riduce ad adeguamento a scelte già stabilite in un altrove manipolante.

La biologia molecolare e la genetica, che hanno permesso la riproduzione medicalmente assistita, hanno contribuito a costituire un diverso concetto di generazione. Questo ha ricadute profonde su come interpretiamo l’essere genitore, su chi sia un figlio.

L’ovulo di una donna fecondato in provetta dallo sperma di un donatore anonimo produce un embrione che viene impiantato nell’utero prestato per la gestazione e che fornirà un bambino ad una coppia sterile. Se io sono quel bambino, chi è mio padre, chi è mia madre o meglio chi sono le mie madri? Lo sperma del donatore anonimo avrà generato altri figli e io avrò fratelli e sorelle in giro per il paese. Tutto questo però non è soltanto una questione anagrafica o di assegnazione di ruoli.

È una reinterpretazione radicale delle figure di accudimento e di prossimità. È molto interessante ascoltare i racconti di chi viva in prima persona una situazione di questo tipo: il bisogno di identità che emerge ha altri caratteri rispetto allo stesso bisogno di chi abbia un padre e una madre vecchia maniera. Sono elaborazioni che chiedono di scavare negli abissi dell’umano e questo non può non riguardare gli scienziati del settore, date le conseguenze radicalmente antropologiche del loro lavoro. Queste ricerche, che si tramutano in pratiche, ci restituiscono un altro mondo che richiede nuove chiavi di lettura proprio da parte di chi contribuisce in prima linea a generare questi rivolgimenti.

I modi in cui navighiamo nella vita sono embricati. Dalla scienza alla politica, dalla tecnologia all’economia, dalla sociologia alle religioni, dalla musica alla filosofia siamo in ambiente unico, al massimo qualche tramezzo poroso. Toccato un aspetto inevitabilmente si toccano tutti gli altri e subito ne rimane l’impronta indelebile.

È compito del politico”, “lo dice il virologo”, “è questione di marketing lo chieda al creativo”, “non sono mica un filosofo!” … separazioni forzate, illusioni di conservare le mani pulite. Ma la vita è nata nel fango, o si accetta di sporcarsi o si è fuori gioco.

Perciò gli scienziati hanno bisogno di essere coinvolti seriamente nella riflessione di che tipo di esseri umani vogliamo diventare. Lasciarli fuori o permettere che se ne tirino fuori, pensando che la scienza non abbia a che fare con la ricerca del senso di questo nostro vivere, è vederla in modo digitale, dicotomico, destinato a polarizzazioni inutili e dannose.

I ricercatori hanno un ruolo importante nel delineare il senso dell’universo, perché il modo in cui indagano la realtà, le scoperte che fanno, le invenzioni che mettono a punto costruiscono un modo di pensare e modellano le nostre menti.

Scienziati, politici, economisti, industriali, tecnologi, operai, avvocati, casalinghe, panettieri… siamo tutti responsabilmente implicati nel delineare come intendiamo crescere come umanità. Nessuno si può tirare indietro, certamente ognuno nel suo ambito di esperienza, ma il fatto stesso di appartenere al genere umano ci assegna il compito di pronunciare parole di senso, non importa se con o senza titolo accademico. Ognuno non può che rispondere “presente” all’appello della vita, rimanere nell’ultimo banco e pensare di non essere notati non è possibile. La delega non è ammessa, si vive soltanto in prima persona.

Non si tratta però di una responsabilità di tipo legalista, di rispondere cioè dell’aderenza alle leggi vigenti. Non si tratta di rivendicare diritti, imporre doveri, escogitare regolamenti pronti a cogliere in fallo chiunque non li rispetti.

Si tratta di provare a guardare la vita con un respiro più profondo, uscire dalle logiche difensive del diritto giuridico: non è compito mio, non mi riguarda, non è di mia pertinenza, “sono forse io il custode di mio fratello?”. Sì, ciascuno è il custode del proprio fratello, perché ci sono legami di sangue che travalicano ogni confine da difendere, ogni onore corporativo da preservare.
Siamo esseri umani, non c’è terreno franco in cui ritirarsi, aree duty-free dove la vita ha prezzi scontati. Neanche per gli scienziati.

Il senso del nostro stare al mondo non lo tracciamo uno per uno, né tanto meno per mandato professionale, ma soltanto dentro lo svolgimento delle relazioni, perché noi siamo costitutivamente relazione.

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Autore: Iside Fontana

Laureata in Scienze Biologiche, cristiana, appassionata dell’interrogazione teologica e di tutto ciò che si cimenti nel tentare una sintesi del pensiero per una conoscenza profonda del mistero della vita. Single.

3 pensieri riguardo “Digitale vs Analogico”

  1. Il problema non sono i ricercatori ma un mercato che fomenta narrative convenienti. Il problema purtroppo sorge quando l’umano viene approcciato da una prospettiva che è abituata a spiegare le cose senza essere consapevoli della differenza ontologica abissale che separa la vita biologica (uguale per tutti) dalla vita vissuta (unica ed irripetibile per ciascuno). Da quando poi il capitalismo si è spostato sulle piattaforme e tutto il mercato passa per i dati ai tecnici è stata data la patente per pontificare su tutto: filosofia, storia, neuroscienze, psicologia, pedagogia… Il risultato è una narrativa surreale e totalmente scollata dall’umano – quella ad es. della AI – sostenuta da vantaggi commerciali ed economici.

  2. Condivido il pensiero del commento qui sopra.
    A me pare che se mai avremo una possibilità di emancipazione da questa struttura economico-socio-politica pervasiva e potentissima, cui siamo per la maggior parte soggetti a bassissimo livello di consapevolezza, questa potrà avvenire soltanto a patto di guadagnare una nuova forma antropologica, ad altissime densità spirituale, lucidità mentale e libertà creativa.
    A meno cioè di un lavoro nelle profondità di sé per delineare una nuova forma di umanità e quindi di società, di politica, di economia, cioè di relazionalità, temo non avremo grandi chance di sopravvivenza come specie. O la prendiamo a monte, o non la prenderemo affatto. E questo potrà accadere soltanto se ogni essere umano è disposto a mettersi in gioco, non importa quale siano i ruoli che ricopre, quindi ricercatori compresi, perché nessuno può tenersi fuori.
    iside

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