Cosmologia e astrofisica, la nuova scienza

Sono tempi molto particolari, per la scienza. In particolare per le discipline riguardanti il cielo, la cosmologia e l’astrofisica. Come già delineavo in Teilhard aujourd’hui 31, viviamo davvero un’epoca particolare. Ed è ormai urgente che anche le persone poco addentro ai tecnicismi della scienza (a volte eccessivi) abbiano l’occasione per prendere piena consapevolezza di questo. Perché la portata di questa rivoluzione in corso è essenzialmente culturale, esistenziale: esonda ampiamente dall’ambito degli addetti ai lavori, per farsi necessario patrimonio di tutti.

L’immagine della regione intorno al buon nero supermassiccio al centro della galassia Messier 87, proposta nel 2019 grazie a due anni di rilevamenti dei radiotelescopi dell’Event Horizon Telescope. Si può osservare per la prima volta l’«ombra» del buco nero: la materia in caduta libera verso l’interno, riscaldandosi, emette luce percepibile  grazie ai radiotelescopi, rendendo così osservabile la zona “in ombra” all’interno del buco nero stesso. (Crediti: EHT Collaboration)

Cosmologia ed astrofisica sono essenzialmente nuove, infatti, perché del tutto nuovo è quello che stanno comunicando in questo tempo, a tutti gli uomini. Vorrei qui spendere qualche parola di premessa, che ci possa aiutare a vivere questo tempo, che è anche ed innanzitutto un tempo di scoperte, nel modo più consapevole. Procederò con quell’atteggiamento di consapevole fiducia nella scienza, tanto caro a Teilhard de Chardin, che ricordava come ”le analisi della Scienza e della Storia sono molto spesso esatte; ma non tolgono assolutamente niente all’onnipotenza divina, né alla spiritualità dell’anima, né al carattere soprannaturale del Cristianesimo, né alla superiorità dell’Uomo sugli animali“.

Formarsi un quadro realistico sulla scienza del cielo oggi, non può dunque prescindere dalla preliminare presa di coscienza del momento unico che abbiamo il privilegio di vivere. Bisogna infatti pensare questo tempo in modo adeguato: ovvero, come il primo dei tempi dell’uomo, nel quale domande sempre ritenute fondamentali hanno ottenuto una compiuta risposta scientifica. Dal punto di vista storico, è difficile sottrarsi all’evidenza di una sorta di unicum temporale: in appena una generazione, è cambiato tutto. Siamo davvero presi in una poderosa accelerazione conoscitiva. In pochissimi anni, convinzioni millenarie sono state rimosse. Domande che per millenni avevano gravitato nel campo esclusivo della metafisica, sono potentemente e pienamente rientrate nel cerchio delle questioni scientifiche, indagabili, falsificabili nel senso popperiano.

Da ragazzo – come tutti i ragazzi – mi facevo mille domande, sul cosmo. Nella mia mente, quesiti come quanto è grande l’universo oppure quando è nato apparivano irriducibili ad ogni approccio empirico, interrogativi blindati ad ogni interrogazione razionale. Così in effetti è stato per infinite generazioni, ma così – per una sorta di pigrizia della mente – è ancora per tutti noi, nella misura in cui il pensiero automatico ci domina, nel grado in cui ci lasciamo pensare e non ragioniamo attivamente, cercando di incarnare il messaggio che la nuova scienza ci comunica.

Nel cambio di millennio, tutto è cambiato. Possedere un modello scientifico del cosmo, equivale ad aver incorporato nella scienza qualcosa che ha sempre abitato nel territorio del mito. Di fatto, possiamo ora parlare di quanto è antico il nostro universo, ragionare di quanto è estesa la sua parte osservabile. Per quanto il momento iniziale, il famoso Big Bang (nel modello cosmologico comunemente accettato) rimanga avvolto nel mistero, siamo comunque in grado di spingerci a predire il comportamento della materia e dell’energia molto indietro nel tempo, a distanze temporali lontanissime dalla nostra, piuttosto vicine al punto di inizio. Possediamo dei modelli dettagliati dell’universo bambino, che spiegano efficacemente la gran parte delle caratteristiche osservabili dell’universo presente.

Insomma, abbiamo un quadro teorico affidabile che spiega non solo come sono nate le stelle e le galassie, ma che rende ragione dei dati provenienti dai più lontani quasar, che intreccia con estrema precisione le previsioni delle onde gravitazionali con i dati che arrivano a Terra, testimoniando la nostra comprensione di fenomeni distantissimi da noi per distanza e scala di energia, come i processi di fusione di due buchi neri (entità fino a pochi anni fa ancora puramente ipotetiche, delle quali ormai possediamo addirittura delle immagini).

E’ confortante constatare come l’Europa e l’Italia siano proprio nel centro di questi processi. Senza nulla togliere a colossi extraeuropei (la prestigiosa NASA su tutti), l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) – e l’Italia come partner rilevante al suo interno – è protagonista con delle missioni molto ambiziose che stanno ottenendo dati fondamentali, in ambienti estremamente diversi. Difatti, mentre la sonda Solar Orbiter (lanciata nel febbraio di quest’anno) sta investigando il Sole così da vicino da dover sopportare temperature dell’ordine di varie centinaia di gradi, il satellite Gaia, che da alcuni anni scruta pazientemente e costantemente la Via Lattea, effettuando un censo di stelle senza alcun precedente – ci ha appena aperto lo scrigno di una nuove versione del suo prezioso catalogo, destinato senza alcuna esagerazione a impattare per diversi decenni sugli studi del nostro ambiente galattico. A breve, inoltre, assisteremo al lancio di Euclid, che avrà il compito fondamentale di studiare l’evoluzione dell’universo con particolare riguardo a temi fondamentali come materia ed energia oscura. Trovo che i successi scientifici di una Europa unita sotto l’aspetto scientifico siano un grande stimolo per proseguire verso l’obiettivo di una vera Europa dei popoli, che potrà permettersi di sognare ancora più in grande.

La chiave interpretativa che vi propongo ormai è palesata. A livello di umanità, siamo giunti ad un punto estremo di conoscenza, dove antichissimi quesiti hanno trovato una risposta (peraltro, mai definitiva e sempre in progress come è nella specifica natura dell’impresa scientifica). Stiamo percorrendo il confine estremo di un processo iniziato, storicamente, poco più di cento anni fa: con la formulazione da parte di Albert Einstein, della teoria della relatività generale. Questa maestosa cattedrale del pensiero ha collegato insieme i dati empirici dell’epoca in un quadro teorico coerente, che per la prima volta in assoluto ha donato al genere umano un modello scientifico di universo.

Notate che dal punto di vista dell’evoluzione umana, in corso da miliardi di anni, questa è una acquisizione modernissima. Con la quale ancora dobbiamo fare i conti. Proprio come quella di un universo dinamico, addirittura in accelerazione. L’analisi della luce delle stelle più lontane, come appunto le supernove – visibili a grandissima distanza – ci hanno confermato che il nostro universo si espande in modo sempre più veloce, smentendo lo schema per il quale l’espansione è solo un moto residuo dell’impulso iniziale del “grande scoppio”.

Mentre noi viaggiamo ingombrati da pensieri vecchi, schemi ottocenteschi, che ci dicono che lassù (e di conseguenza, quaggiù) non cambia mai nulla, il nostro universo – solo a volerlo davvero ascoltare – ci parla di sistemi complessi e variegati, velocità indicibili di allontanamento delle galassie, fenomeni di alta energia che donano vita e colore alle profondità cosmiche – tutt’altro che statiche – e pervasive onde gravitazionali che attraversano miliardi di anni luce per rendersi finalmente percepibili anche dalla nostra Terra. L’energia propulsiva in circolazione rimanda alla visionaria consapevolezza di Teilhard, “Tutto l’universo non è che la frangia del mantello di Cristo“ poiché questo impulso cinetico di rivoluzione appare in effetti abbeverarsi ad un dinamismo messianico ancora da comprendere appieno, e forse (mi sia concesso di azzardare) non interamente decifrabile entro i confini della umana razionalità.

Tutto questo, come si sta tentando di dimostrare, è assolutamente nuovo e potrebbe portarci a smarrire quel senso di umiltà che ci è invece necessario per comprendere il messaggio finissimo che ci arriva dalle stelle, per sintonizzarci correttamente sulle giuste frequenze.

Per ricordarcelo, per ricondurci a questo umile abbandono, necessaria per il percorso della conoscenza, ci aiuta un altro dato importante. Anche questo è frutto della ricerca più recente, e precisamente una predizione chiave del modello “Lambda Cold Dark Matter”, che a sua volta rappresenta il quadro più completo e raffinato che possediamo attualmente, rispetto alla struttura del cosmo. Questo modello affonda le radici nel lavoro di Einstein e integra in un quadro coerente le conoscenze migliori che abbiamo accumulato finora, sul comportamento della materia a larga scala.

La distribuzione nel cielo di più di un miliardo e mezzo di stelle, le cui posizioni, luminosità e colori sono tratte dalla Early Data Release 3 della missione Gaia. La striscia orizzontale dove si trova la maggioranza delle stelle costituisce il piano della Via Lattea, la nostra galassia; in basso a destra  si possono scorgere le Nubi di Magellano, due piccole galassie che orbitano intorno alla nostra. (Crediti: Esa/Gaia/DPAC)
 

Ebbene questo modello ci fornisce predizioni che sono di una portata scientifica e poi più ampiamente culturale, assolutamente straordinarie. Il modello infatti ci rivela un universo ancora profondamente misterioso, essendo composto per la quasi totalità di energia oscura e materia oscura. La parte di universo a noi accessibile, ovvero l’universo che vediamo, del quale siamo formati noi e le stelle, costituisce appena il 5% del totale in termini di massa-energia. La gran parte di quello che esiste non si vede, ecco il messaggio potentissimo che arriva dall’universo moderno, che pone definitivamente in soffitta ogni residuo di positivismo ottocentesco, invitandoci ad allargare lo sguardo e a comprendere una volta per tutte che esistono realtà inaccessibili ai nostri sensi (e agli strumenti di misura, estensione di questi), ma non per questo meno “reali”. Al proposito, molto ci aspettiamo dalla sonda Euclid, i cui dati ci dovrebbero consentire di entrare realmente in questo stimolante mistero.

In ogni caso, appare estremamente necessario un cambio di paradigma. Dobbiamo familiarizzarci con una visione più elastica che incorpori armonicamente anche delle informazioni apparentemente opposte tra loro, è forse il segno della necessità dell’abbandono di un pensiero lineare e monolitico che non riesce più a tenere il passo con il nuovo universo e con quello che sempre più persuasivamente ci indica.

Proveremo in queste pagine, Deo concedente, a documentare via via alcuni segnali di questo nuovo universo che si sta progressivamente configurando sotto i nostri occhi, per ritornare alla stessa candida meraviglia che nutriva Teilhard de Chardin di fronte all’impresa scientifica, meraviglia che ai suoi occhi – di credente e scienziato – lungi dal sottrarre qualcosa allo stupore di fronte alla vastità e complessità della Creazione, ne costituiva invece un potente volano per un suo più pieno e consapevole rilancio.

Intervento originalmente pubblicato sul sito dell’Associazione Italiana Teilhard de Chardin come inaugurazione della sezione “Commenti e riflessioni”. Tale sezione è destinata, nel tempo, ad arricchirsi di contributi di vari autori esperti nei diversi campi del sapere scientifico, come aiuto per comprendere l’evoluzione della scienza alla luce unificante del pensiero metafisico di maestri, quali appunto Teilhard.

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Autore: Marco Castellani

Astrofisico, divulgatore, scrittore.

3 pensieri riguardo “Cosmologia e astrofisica, la nuova scienza”

  1. Apparentemente è un dettaglio, un intercalare, messo tra due virgole in corsivo. Eppure mi ha molto colpita: Deo concedente.
    Una di quelle forme idiomatiche che spesso si mettono senza pensarci troppo, un po’ scaramanticamente, a Dio piacendo, se Dio vuole ecc.
    Queste espressioni mi fanno sempre un po’ impressione perché ciò che diciamo, ciò che pensiamo non è mai neutro, anche negli intercalari, ma rivelativo di un sentire più profondo, non necessariamente sempre alla superficie del cosciente.
    In genere usiamo questi modi di dire quando abbiamo un desiderio intenso di qualcosa che ci sta a cuore e temiamo che questo desiderio non sia realizzato, che non riusciremo a portare a termine il nostro progetto.
    Il timore è certamente realistico, dato che la vita ha un carattere occasionale e drammatico, cioè ci sfugge, gli eventi accadono con una quota di indisponibilità rispetto al nostro volere. Nel linguaggio comune lo chiamiamo fortuna (o sfortuna) cioè quella casualità su cui non possiamo intervenire. Per non parlare poi di quando la vita mostra il suo lato drammatico, che rema contro il nostro desiderio, ed è il male che ci attacca.
    Dentro tutto questo il Giobbe che c’è in noi, o almeno il primo Giobbe, subito attribuisce alla trascendenza ogni causalità della quota incerta della vita “Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male?” (Gb 2,10). Un po’ come dire: non cade foglia che Dio non voglia…
    Eppure Gesù di Nazareth ha speso tutta la sua vita per mostrarci il volto soltanto promettente di Dio, il suo essere dalla parte dell’uomo, incondizionatamente e la sua totale estraneità al male. Gesù guarisce per rivelare il volto del Padre, mai fa ammalare. La cecità di quell’uomo è perentoriamente disgiunta da ogni peccato (Gv 9,1ss ), così come la morte inferta ai Galilei uccisi da Pilato e la morte accidentale per il crollo della torre di Siloe (Lc 13,1ss ). E arriva alla fine, fino alla croce da cui il Padre non lo fa scendere, da lì non manda fulmini contro i suoi assassini, rimane appeso e spira, perché questo è il volto di Dio: appeso con noi, inchiodato alle nostre croci. Da cui non ci stacca, e che certamente non ci manda. Ma nella fede di quell’Uomo di Nazareth, che scommette tutta la sua vita nell’affidabilità dell’Abbà, la risurrezione gli dà ragione, il Padre è davvero affidabile, si cura del compimento dei nostri desideri, delle promesse con cui la vita di ciascuno si apre e che ci fanno esultare di gioia per una vita che vale la pena vivere.
    Perciò, senza timore, possiamo dire che Dio di sicuro è concedente, non nel senso che accadrà qui ed ora secondo i nostri desideri, ma che di sicuro la nostra vita sarà compiuta, secondo la sua volontà che è vita in abbondanza per tutte le sue creature.
    Per chi sceglie di affidarsi all’Abbà, la scommessa è lunga tutta la vita, aggrappati ad una speranza, pegno di compimento, che soltanto alla fine, nel momento estremo della morte, ci sarà rivelata come credibile.
    La modalità non dispotica del Dio della storia cerca sempre una relazione con una coscienza umana, non interviene dall’esterno e in autonomia, nel corso degli eventi delle nostre vite. Rimane sulla soglia della libertà umana, ma se gli si dà credito è la forza che dà forma alle nostre esistenze.
    Certo, qui occorrerebbe ripensare il significato di creatore e creatura, e lo possiamo fare proprio a partire da ciò che ci insegna il racconto evolutivo e dall’aiuto che questo ci offre per il lavoro interpretativo delle Scritture (cosa che abbiamo tentato di fare nei tre post precedenti primo, secondo, terzo).
    iside

    1. L’espressione “Deo concedente” non è stata usata come intercalare, tanto per fare, ma con uno scopo ben preciso. E con tale scopo è inserita precisamente a conclusione del mio intervento. Bene che ci sia questa occasione per specificare meglio il senso in cui l’ho voluta usare.

      Siccome la prendo da Jung (e in tal modo indirettamente voglio anche fargli omaggio, riconoscendo il senso profondo di questa espressione che lui usava e anche la mia affezione per la sua figura e per un suo rapporto con il divino), premetto questo suo passaggio:

      “Il progresso conquistato con la volontà è sempre uno spasimo. Il retrogradismo, mentre è più vicino alla naturalezza, è tuttavia continuamente minacciato da un penoso risveglio. La concezione antica si rendeva conto che il progresso era possibile solo Deo concedente, e con ciò essa dimostrava di essere pienamente conscia delle contraddizioni inevitabili e ripeteva, su un piano più alto, gli antichissimi rites d’entrée et sortie. Ma più la coscienza si differenzia, più cresce il pericolo del suo distacco dalle radici. Il distacco completo avviene quando si dimentica il Deo concedente.” (Jung, La psicologia dell’archetipo «fanciullo», in Jung-Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia).

      In questa linea, il “Deo concedente” ha il preciso scopo di svincolarsi dalla parte di pretesa, che ogni impostazione umana può contenere. Dio opera per il meglio, senza dubbio. Ma come faccio io a sapere se questa “impresa” che io ho pianificato sia “il meglio” ? Non sarebbe la prima volta che la cosa meno opportuna che ci possa essere per me, è la realizzazione dei miei piani! Io non vedo abbastanza in là da capire se perseguire una certa cosa è bene o il mio bene è altro, e io non lo so.

      Dunque non mi pare necessario nessun ripensamento del rapporto tra Creatore e creatura, in questo caso almeno. Né tantomeno ricorrere al racconto evolutivo. Mi pare invece necessario questo continuo lavoro di liberarci dalle nostre pretese, che sono tanto più pericolose quanto più ci sembrano “buone”. La frase vuole agganciarsi a questo, riparando su una saggezza di un Ente superiore, che meglio di me conosce ciò che è buono per me.

      Concordo con Jung, il progresso conseguito con la volontà è sempre uno spasimo. Un rischio dal quale nessuno può mai dirsi esente. Siccome qui non si tratta di uno sforzo di volontà, l’espressione “Deo concedente” mi pare tutt’altro che incidentale o “scaramantica”. Mi pare, invece, quanto mai opportuna.

      Grazie!

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