Una domanda di metodo

Dieta personalizzata. Pare interessante, mi incuriosisco e ascolto il programma radiofonico in cui il giornalista Dan Saladino veste i panni del soggetto sperimentale in uno studio su grande scala. Il professor Tim Spector ha messo in piedi il progetto “Predict”, che coinvolge cinque università, un’azienda high tech e mille persone su cui viene effettuato l’esperimento.

Pendolari per undici giorni, tra laboratorio e casa, le persone rimangono attaccate a vari sensori wearable, gestiti da app appositamente disegnate. Il monitoraggio è serrato: glicemia, pressione sanguigna, profilo lipidico, poi raccolta e analisi di saliva, urine, feci ecc. Alle persone vengono forniti “pasti” strettamente controllati nella loro composizione, preparati con l’aspetto di muffin: due a colazione, tre a pranzo e tre a cena. Al secondo giorno il nostro reporter è già stufo alla sola idea del muffin – che giura, alla fine dell’esperimento, non voler più vedere, neanche quelli veri, almeno per alcuni mesi! Ai partecipanti poi è dato un tempo limitato entro cui ingurgitare i “dolcetti”: in dieci minuti devono farne fuori due, quindi punzecchiarsi il dito per far uscire la goccia di sangue su cui il marchingegno potrà effettuare la misurazione dei lipidi. Esaminazione minuziosa varie volte nella giornata, a distanza di tempi predefiniti dai vari “pasti”.

Le pur brevi interviste ad alcune “cavie” umane di sperimentazione, oltre ai commenti del giornalista, lasciano immediatamente trasparire sensazioni di disgusto per cibo per niente appetibile, stress determinato dal tempo contato entro cui far giungere i muffin dentro lo stomaco, i punzecchiamenti cui ci si sottopone, certo volontariamente, per le varie rilevazioni. Il tutto però generosamente sopportato per amor di scienza, secondo le loro stesse dichiarazioni.

A questo punto iniziano a sorgermi dei dubbi.

Esattamente per lo stesso motivo. Siamo sicuri cioè che così facendo non perdiamo dati preziosi per arrivare alle conclusioni che si prefigge lo studio? E così l’amor di scienza tradito e la conoscenza mancata?

Lo scopo di tutto questo studio infatti è di poter valutare le differenze individuali nella metabolizzazione del cibo e dare quindi indicazioni nutrizionali personalizzate. Consigli dietetici uguali per tutti non paiono più plausibili, ognuno di noi ha le sue caratteristiche a partire dalle quali occorre ragionare per formulare regimi alimentari adeguati.

Inoltre ormai la scienza chiaramente racconta gli intrecci sottili tra un numero strabiliante di molecole che concorrono a vari livelli organizzativi nel corpo, fino ad approdare alla risposta cosciente. I messaggeri portatori di informazioni sono tantissimi. Dagli ormoni ai neurotrasmettitori alle citochine e via così: un brulicare infinito in un incessante traffico di reazioni, aggiustamenti, adattamenti, colloqui tra organi lontani, emozioni che ci spingono verso le risorse e ci fanno allontanare da potenziali pericoli, fino alle elaborazioni sofisticate del pensiero.

Percezioni sensoriali, emozioni, azioni, sentimenti, pensieri: tutto concorre a creare reti di risposte.

La psiconeuroendocrinoimmunologia docet.

In questa prospettiva scientifica già esistente, mi viene da chiedermi il ruolo del disgusto per un cibo, che si è costretti a piazzarsi in bocca comunque, sull’assorbimento dei nutrienti in esso contenuti. Il ruolo dello stress che questo produce. La masticazione, passaggio chiave per una buona digestione, non è soltanto frantumazione meccanica, ma anche possibilità di assaporare con cura ciò che si ha in bocca – che è, tra l’altro, molto di più di un semplice cavo orale – con evocazione di ricordi, immagini, emozioni…

Faccio fatica a credere che tutto questo non abbia influenza sui valori di glicemia, sulla pressione sanguigna, sul profilo lipidico, sul microbioma ecc, cioè proprio su quei parametri che si cerca di monitorare con puntiglio e da cui poi si vorrebbero trarre indicazioni per la dieta personalizzata.

Allora ritorno ad un punto su cui mi ero già soffermata in questo blog.

Forse abbiamo bisogno che anche il metodo scientifico evolva, a partire dal suo interno, cioè dalle scoperte che la scienza produce. Stiamo sempre più capendo la complessità dell’essere umano, le interconnessioni che ci strutturano, le relazioni fittissime che ci abitano, di cui siamo parte inconsapevole, almeno fino a quando il sistema funziona in modo accettabile.

Allora forse i trials scientifici avrebbero bisogno di essere disegnati tenendo conto proprio delle acquisizioni scientifiche, in modo che i risultati non siano falsati da misurazioni ridotte. Infatti, le misurazioni sono già di per sé limitate, in quanto possibili soltanto per ciò che è effettivamente misurabile. Sarebbe importante non compromettere ulteriormente il loro potenziale conoscitivo escludendo parametri già fin d’ora considerati determinanti nel modo in cui l’essere umano si esprime, nella sua interezza.

Print Friendly, PDF & Email

Autore: Iside Fontana

Laureata in Scienze Biologiche, cristiana, appassionata dell’interrogazione teologica e di tutto ciò che si cimenti nel tentare una sintesi del pensiero per una conoscenza profonda del mistero della vita. Single.

5 pensieri riguardo “Una domanda di metodo”

  1. Sicuramente danneggerà la vera natura umana. Fin quando, lo studio non inquina il campo umano, costituito da infinite variabili, allora sicuramente farà bene, altrimenti la vedo più come una forzatura che come scienza.

  2. Ottima osservazioni Iside, ma onestamente non credo sia un problema di metodo. Semmai di inquinamento. O, se preferiamo, di un problema di veri obiettivi.

    La complessità da gestire è un fatto contro il quale ci si scontra: essa aumenta all’aumentare delle nostre conoscenze; ma il metodo scientifico non può fare a meno di fare semplificazioni pur necessarie.

    Il problema qui mi sembra altro: chi fa finanziato quelle ricerca? Perché? Con quali prospettive? Con l’obiettivo di evidenziare quali grandezze? Serviva a qualcuno un studio che evidenzia questa o quest’altra grandezza? I fondi, oltre ad essere interessati per qualcuno, erano adeguati? Perché se non lo erano la serietà imporrebbe di non farlo affatto: ma siamo sicuro che quella università potesse rifiutare certi finanziamenti? Il problema del finanziamento della ricerca, di quali interessi rappresentano le persone che fanno questi studi è un tema aperto.

    Non si tratta di mettere in contrapposizione ricerca privata verso ricerca pubblica: senz’altro la ricerca privata può svolgere un ruolo importante. Il problema è che, soprattutto in ambito anglosassone, la preponderanza degli interessi privati e la difficoltà che fanno le università nel rifiutare gli assegni di fondazioni filantropiche è enorme; è elevata invece l’opacità dei meccanismi; si sa che negli USA – proprio a causa della bassa qualità media degli alimenti – il salutismo origina grossi giri di affari, pubblicità, guerre fra aziende e prodotti di massa. Io sarei tentato di attribuire più che altro a questi meccanismi, e non al metodo usato o alla scarsa competenza dei ricercatori, che certamente sono a conoscenza di certi bias da te giustamente evidenziati.

    Altre due osservazioni.

    Questi studi in genere “da soli” significano sempre poco o nulla; vanno sempre incrociati con decine se non centinaia di altri studi; tutti in qualche modo hanno i loro bias, ma messi insieme è possibile “abbassare il rumore” grazie al principio di indipendenza fra essi e, non ultima, la riproducibilità di ogni esperimento, criterio essenziale per il metodo scientifico.

    Condivido appieno, invece, la perplessità che sento trasparire dalle tue parole riguardo la scarsa eticità di questi studi: costringere gente a fare cose così assurde è davvero al limite… ma peggio ancora è anche molto ipocrita presentare questa gente come “liberi volontari” quando invece sappiamo bene che sono pagati e volte anche profumatamente. Peggio: questi volontari è gente povera o disperata che pur di guadagnare qualcosa è disposta a tutto. Tu, lo faresti per “amore della scienza”? Io no. Il fatto è che se non ha gente disperata questi esperimenti semplicemente non li faresti. C’è gente che si sottopone a decine di questi esperimenti, anche medici, imbottendoti di sostanze di ogni tipo, a volte anche con più esperimenti allo stesso tempo, il che rende discutibile anche la bontà del campione. Ma essendo l’unico campione disponibile la scienza deve accettare il compromesso: o questo o niente.

    La voracità degli scienziati nel pubblicare, pubblicare, pubblicare – sennò non fanno carriera – non aiuta il certo il meccanismo.

    Il problema è rendere più a misura d’uomo questi meccanismi; ma non mi pare un problema della scienza, è un problema sociale e politico; la scienza ne risente semplicemente in quanto “pezzo” del sociale e del politico.

    1. Cari Iside e Fabrizio,

      molto interessante questo vostro scambio. Direi anche io, con Fabrizio, che “Il problema è rendere più a misura d’uomo questi meccanismi; ma non mi pare un problema della scienza, è un problema sociale e politico; la scienza ne risente semplicemente in quanto “pezzo” del sociale e del politico.”

      E forse rilancerei ancora un poco, perché sicuramente il problema ha aspetti sociali e politici da considerare, e che vanno considerati adeguatamente. Tuttavia, mi sembra che si possa andare più a fondo ancora. E’ vero, il problema non è principalmente della scienza. Ma il problema, vorrei dire, è principalmente spirituale.

      Mi spiego. Il fatto di una scienza ancora governata esclusivamente da criteri di efficienza e che si dimostra incapace (o meglio, non interessata) ad una visione “olistica” dell’uomo, permettendosi un’altra volta di separare all’infinito, senza tema di perdere qualcosa di profondo – ovvero l’unicità e l’interconnessione dell’individuo – è l’indice, la cartina da tornasole, di una scienza figlia dei criteri di un positivismo ottocentesco, che peraltro è stato teoreticamente sorpassato dalla ricerca attuale, non solo scientifica ma anche filosofica.

      Sorpassato, ma con una formidabile “isteresi”, una inerzia che si appiglia, temo, ad una possibilità sempre presente nell’animo umano.

      E’ un problema dunque “spirituale”, in quanto una scienza che fa fatica ad adottare criteri di rispetto e di umiltà di fronte al mistero dell’individuo, non può che produrre queste conseguenze, semplicemente perché il suo quadro di riferimento, il suo concetto di “riuscita” o “fallimento”, di “performance” è intimamente informato da questo sistema di valori: un sistema che giustamente sentiamo ormai come troppo stretto, come una deformazione non accogliente e non più accettabile, della misteriosa complessità della donna, e dell’uomo.

      Penso anche io, dunque, che il metodo scientifico debba evolvere, in un certo senso, ripensando il suo interno, alla luce delle acquisizioni più recenti delle scienze filosofiche e anche delle scienze fisiche. Per fare un esempio: laddove si dice che tutto è “relazione”, rintracciando in essa – e non in alcun ipotetico mattoncino fondamentale – il “punto indivisibile” della struttura della materia, poi non appare lecito perdersi per strada questa profonda intuizione, procedendo nella antica abitudine di “separare” per conoscere. Così difatti, non solo non si conosce davvero, ma si “perturba” il sistema che vogliamo indagare, falsando anche, probabilmente, gli stessi risultati (come Iside giustamente osserva).

      Il problema è dunque intimamente spirituale, perché coinvolge un ambito molto più vasto della prassi di laboratorio, un ambito che lungi dall’essere incorporeo ed impalpabile, produce modifiche certe e misurabili, se preso adeguatamente in esame.

      E’ un problema di concezione dell’uomo e del mondo, ovvero la cosa più concreta che c’è.

      Grazie.

  3. Sono certamente d’accordo sul fatto che il contesto politico-economico abbia un grosso peso sullo svolgimento della ricerca scientifica, così come lo ha su tutti gli aspetti della vita.
    A me pare, tuttavia, che in un momento storico come il nostro abbiamo bisogno di ripensare anche la scienza e il suo metodo. Non intendo certamente mettere in discussione il metodo scientifico in quanto tale, come modalità di indagine che valorizza osservazione, verifica sperimentale, formulazione di ipotesi, di modelli, di teorie.
    In questo nostro specifico tempo, però, se davvero siamo dentro un cambiamento di epoca, ciò che dovremmo vedere, anche solo per cenni, sono trasformazioni radicali in ogni ambito, da quello politico-economico a quello antropologico, teologico, artistico, e appunto scientifico. Proprio perché le chiavi di lettura stanno cambiando radicalmente, la scienza non potrà fare a meno di ripensarsi. Del resto, il metodo scientifico ha già 400 anni… Molte cose sono cambiate nel frattempo in termini di ciò che abbiamo compreso.
    Ciò che a me fa particolarmente problema è il criterio di semplificazione dei fenomeni per studiarli. Qui mi pare ci sarebbe molto su cui riflettere e rivalutare per comprenderne la pertinenza proprio in termini di capacità conoscitive. Ho l’impressione che la semplificazione sottintenda una comprensione della complessità come giustapposizione di elementi appunto più semplici. Personalmente mi interessano di più le prospettive per le quali il tutto e di più della somma delle parti, dove la relazionalità gioca un ruolo essenziale. Ma se è così, lo smembramento produce una perdita (conoscitiva) irreparabile.

    Ovviamente non ho soluzioni, ma mi pare che tenere sempre più presente la complessità della vita nel suo intero, in intrecci, influenze, relazioni ecc, sia inevitabile perché la conoscenza che proviene dalla scienza possa avere un valore spendibile e conoscitivamente significativo.
    iside

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi