Il bambino e il gigante

C’era una volta un bellissimo bambino, nato da due giovani ragazzi inglesi che lo amavano ed erano molto felici che fosse entrato nelle loro vite.

Il piccolo si chiamava Charlie e nel primo mese di vita stava bene, era assolutamente come tutti gli altri: succhiava latte, stava in braccio ai suoi genitori, ogni tanto strillava, faceva popò e dormiva beato nella sua culla. Parenti e amici accorrevano, come accade in genere in questi casi, per vedere il neonato, complimentarsi con i genitori, e portare regali.

Dopo circa un mese, però, mamma e papà cominciarono ad accorgersi che i movimenti di Charlie erano un po’ rallentati e ridotti, e progressivamente il piccolo diventava sempre meno reattivo. Nel mese successivo Charlie iniziò ad accusare anche difficoltà respiratorie, in quanto i muscoli preposti a questa attività avevano perso forza.

Il piccolo venne ricoverato presso il Great Ormond Street Hospital di Londra e venne sottoposto a ventilazione meccanica che sostituiva la sua respirazione inefficace. Furono necessari anche interventi appropriati per garantirgli una nutrizione adeguata, perché non era più in grado nemmeno di succhiare e quindi di alimentarsi e idratarsi.

Charlie e i suoi genitori si stavano affidando ad un gigante, all’apparenza buono e premuroso, che doveva prendersi cura di loro ed aiutarli con la sua potenza nella difficile avventura che stavano intraprendendo.

 

Gli accertamenti del caso portarono a una diagnosi tremenda: Charlie era affetto da una rarissima malattia genetica (una forma di deplezione del DNA mitocondriale). I suoi mitocondri non producevano energia in modo adeguato, i muscoli non avevano più forza, il sistema nervoso era sempre più rallentato e verosimilmente Charlie non poteva già più vedere ne sentire. I medici dell’ospedale affermarono che non esistevano cure ed il piccolo era destinato a spegnersi.

A quel punto i genitori, distrutti dal dolore, ma ancora appesi al filo della speranza, cercarono autonomamente se c’erano altri centri nel mondo che potevano curare quella malattia. Trovarono allora la possibilità di tentare una cura sperimentale negli Stati Uniti, ma di altissimo costo, inaffrontabile per una famiglia. Con la costituzione di una fondazione e l’aiuto di migliaia di persone riuscirono a raccogliere i fondi necessari, ma dall’ospedale arrivò un netto «no»: quella terapia, come qualsiasi altra conosciuta, non avrebbe avuto alcuna efficacia su Charlie ed anche le cure attuali andavano sospese perché prolungavano inutilmente una vita senza speranze.

Il gigante iniziava a battere i pugni sul tavolo e pretendeva di decidere le sorti del bimbo.

Allora i genitori si appellarono ad un tribunale, passando tre livelli di giudizio, ed infine alla Corte dei Diritti Umani di Strasburgo, ma non ci fu nulla da fare. Le istituzioni diedero ragione ai medici dell’ospedale e il verdetto divenne definitivo: i genitori non avevano il diritto di trasferire il proprio figlio dove desideravano che fosse curato e il supporto a respirazione, idratazione ed alimentazione andava sospeso.

Il gigante si stava imponendo con tutta la sua arroganza e prepotenza, ma i genitori continuavano a sperare, mentre le notizie facevano il giro del mondo e manifestanti in piazza elevavano cartelli a favore della loro causa.

Un gruppo di specialisti internazionali prese a cuore la situazione e, valutato il caso, redasse un documento, inviato poi all’ospedale dove era ricoverato il bimbo, in cui si affermava che erano disponibili cure sperimentali adatte alla situazione di Charlie. Nessuna certezza e poche speranze, ma perché non tentare?

Il giudice si mostrò disponibile a rivedere la propria sentenza, purché ci fosse l’evidenza che la cura proposta potesse raggiungere il cervello, che questo non fosse già irrimediabilmente danneggiato, e che ci fossero miglioramenti adeguati.

Erano, però, passati già diversi mesi e Charlie continuava a peggiorare. I suoi muscoli, ma soprattutto il suo cervello, stavano soffrendo molto e ormai danni irreversibili erano sopravvenuti. Per questo, quando stava per arrivare il responso del giudice, i genitori decisero di mollare la presa, rinunciando alla battaglia legale e chiedendo di poterlo portare a casa per qualche giorno, dove sarebbero poi cessate le cure. Venne negata anche quest’ultima richiesta.

Il bimbo fu allora trasferito in una clinica privata, dove venne “staccata la spina” con successivo decesso il 28 luglio 2017.

“Siamo orgogliosi di te” tra le ultime parole dei genitori per il loro bambino.

Il gigante aveva vinto. Sul buon senso, sull’amore e la speranza di questi genitori, sulla tutela della vita.

Questa è, in breve e un po’ romanzata, la storia del piccolo Charlie Gard, che avrebbe compiuto un anno il 4 agosto.

Una delle particolarità di questa vicenda sta nel fatto che le istituzioni (ovvero i medici dell’ospedale assecondati dal tribunale) si sono imposte per cessare delle cure vitali. Si tratta di un abuso nei confronti del piccolo, che nel momento in cui venne presa la decisione non mostrava segni di sofferenza psicofisica o danni cerebrali irreversibili. Che fretta c’era? Bisognava assolutamente staccare la spina? Perché non assecondare i desideri di vita e speranza di questi genitori?

In questo caso si configura un abbandono terapeutico: una cessazione prematura di cure in un paziente che forse avrebbe anche avuto qualche possibilità di essere curato per la sua patologia. Ciò che stava ricevendo è un diritto di tutti: aria, cibo e acqua. Non era in procinto di morire, non c’era evidenza di una sofferenza insopportabile, quindi nessun accanimento terapeutico era in atto. Se la morte fosse poi avvenuta spontaneamente, e dopo quanto tempo, non ci è dato di saperlo.

Ci sono bambini che hanno vissuto anni (e continuano a vivere) con patologie anche molto gravi, magari con forti limitazioni, ma nell’amore dei loro genitori e delle loro famiglie. Tante esperienze dimostrano che questo va ben oltre la patologia e l’handicap, quindi non è giusto valutare dall’esterno se quella vita è dignitosa o meno.

La Vita decide da sé quando terminare, sospendere cure vitali equivale a sopprimerla. In gergo questo viene chiamato eutanasia passiva.

Nel caso di Charlie si è deciso che la sua vita non era dignitosa. La soluzione, contro il parere dei genitori (che sostituiva quello del diretto interessato, incapace di esprimersi), è stata quella di lasciare Charlie senza cure condannandolo a morire prematuramente nel nome di una falsa pietànei suoi confronti (“nel miglior interesse del bambino”).

Non è per nulla chiaro come venisse valutata la sofferenza del bimbo: se fosse stata evidente sarebbe stato opportuno procedere con terapie antalgiche. In questo caso sarebbe stato accettabile anche accelerare involontariamente la morte cercando di evitare al piccolo forti sofferenze.

E’ doveroso ammettere che si trattava di una condizione limite, ma non certo esclusiva del caso. Il bimbo era già stato “salvato” dalla morte, in quanto questa sarebbe sopravvenuta naturalmente per insufficienza respiratoria già a circa un mese di vita. Anche in assenza di cure (ammettendo che quelle proposte potessero fare qualcosa) non sarebbe moralmente ammissibile sospendere la respirazione e la nutrizione artificiali, in quanto non sono considerabili “inutili cure mediche”. Tanto più quando il paziente (o i genitori, come in questo caso) chiede che le cure stesse vengano continuate.

Abbiamo tutti conosciuto il caso di DJ Fabo e quello di Piergiorgio Welby, entrambi mantenuti in vita da respiratori artificiali: erano loro stessi a chiedere di sospendere le cure, ma non potevano farlo autonomamente. Nel caso di Charlie era l’opposto: veniva chiesto di continuare a vivere! Lo stesso vale per le tantissime persone che sopravvivono grazie a ventilazione o nutrizione artificiali. Per estensione, quando non ci sono cure efficaci per le loro patologie e la sofferenza fosse considerata eccessiva, sarebbe legittimo interrompere queste cure anche nei loro confronti.

Ed infine arriviamo ad un altro punto cruciale della vicenda. Le istituzioni si sono addirittura imposte sostituendosi ai genitori, sospendendo la loro patria potestà, e decretando che non avevano diritto a decidere come e dove curare il proprio figlio, per altro a proprie spese, in una situazione molto delicata in cui il tempo di intervento era potenzialmente vitale, mentre attendere significava accumulare sicuramente danni.

In risposta a questo si sono mossi (anche fisicamente) specialisti internazionali, è stata data la possibilità di accogliere Charlie in ospedali come il Bambin Gesù di Roma, è intervenuto il Papa, il presidente degli USA ha dato disponibilità ad accoglierlo nel suo paese per tentare di curarlo, varie manifestazioni pubbliche si sono susseguite per chiedere di non proseguire in questo sopruso, migliaia di persone hanno firmato petizioni, ma non c’è stato nulla da fare.

Il bimbo era nelle mani del gigante, e questi non voleva più mollarlo, era là che doveva morire. Voleva continuare sulla sua strada, nessuno poteva fermarlo, tanto più al termine della sua corsa, quando aveva già calpestato diritti e speranze del piccolo Charlie e dei suoi genitori. Proprio quel gigante che poteva e doveva proteggere e tutelare la vita, in particolare quella più debole e indifesa.

Chi è il gigante? Sono le istituzioni prodotte da una cultura prepotente, che vorrebbe creare una società composta da individui sani, forti e belli, intollerante verso la sofferenza e la disabilità. Per far questo sono necessarie leggi che consentano di eliminare, meglio al più presto possibile attraverso l’aborto, coloro che non corrispondono ai requisiti richiesti.

Una umanità basata sull’amore non si dimentica di questi suoi figli e li accoglie, si cura di loro, li valorizza. Si adatta ai loro bisogni e fa della diversità un valore. Quante volte sono stato colpito e mi sono sentito cresciuto attraverso il contatto con persone fragili, sofferenti e indifese, quanta umanità mi ha toccato! Allora ho sentito che il senso profondo della vita ha a che fare con quella semplice, ma profondissima, richiesta di amore e di speranza. Una voragine che, incomprensibilmente, sfocia direttamente sull’infinito.

 

P.S.: Ho basato il racconto e le mie considerazioni sulle informazioni che ho potuto reperire su giornali e internet, purtroppo non propriamente mediche ed evidentemente incomplete. Ritengo, però, che la risonanza della delicata vicenda e la compresenza di posizioni molto diverse espresse da specialisti in campo medico, giuridico e bioetico, lasci aperte molte possibilità interpretative, compresa quella qui proposta.

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4 pensieri riguardo “Il bambino e il gigante”

  1. Non avendo seguito la vicenda, non mi sento di esprimere nessun pensiero in merito al fatto specifico.

    Questi eventi estremi, nel senso che si collocano agli estremi confini di ciò che solitamente, quando giochiamo a centro campo, presumiamo di conoscere, possono, loro malgrado, diventare provocazioni per il pensiero.

    A me pare che, mai come in questi casi, emerga l’importanza della comunicazione tra tutti gli attori coinvolti che sappiano percepirsi dalla stessa parte. Spesso in queste situazioni, si ha l’impressione di stare nel turbine di un contenzioso, dove ognuno vuole strappare qualcosa di mano all’altro, alla fine senza sapere poi che cosa di preciso, perché nel frattempo si è perso di vista il motivo per cui si sta contendendo. Così, però, ci si strappa di mano la vita, invece che sentirsi giocatori della stessa squadra, con ruoli e competenze diversi, sempre in via di negoziazione, di calibrazione fine.

    Se la parola non viene meno, ad ogni passaggio, non dando mai nulla per scontato, esplicitando i vissuti emotivi di ciascuno, compresi quelli degli operatori sanitari, allora si potrebbe tentare di comprendere meglio il gioco nel suo complesso e provare a stare, anche nella sconfitta, ma insieme.

  2. Tutti gli attori coinvolti, senza ombra di dubbio, si sono messi dalla parte di Charlie. Tutti avevano come obiettivo il suo bene, ma lo facevano con visioni e punti di vista diversi. Da un lato i genitori, e i loro sostenitori, pensavano che sarebbe stato opportuno tentare una terapia anche con poche probabilità di successo, o che sarebbe stato giusto lasciare vivere Charlie sino ad una morte spontanea. Dall’altro l’ospedale e il tribunale che vedevano tutto questo come un’inutile prolungamento delle sofferenze del piccolo.

    Sono state pubblicate dichiarazioni del personale del reparto di degenza e si possono leggere qui:

    https://www.nurse24.it/infermiere/testimonianze-infermieri/infermieri-che-hanno-curato-charlie-gard.html

    http://www.ilsussidiario.net/News/Cronaca/2017/6/30/CHARLIE-GARD-Lettera-dal-Great-Ormond-Street-Hospital-muore-ma-il-male-e-gia-stato-sconfitto/771606/

    Ognuno si faccia la sua idea. Credo sia giusto ascoltare anche le voci di queste persone, ma non trovo che conferme in quanto ho già scritto. In entrambi i casi il personale si auto-assolve attraverso ovvietà e contraddizioni.

    Purtroppo, come nota giustamente Iside, ognuno tende a schierarsi e a combattere per le proprie idee, rischiando di perdere di vista l’obiettivo comune.

  3. Sono d’accordo con Iside, con la quale ho avuto occasione di scambiare qualche pensiero a voce, quest’estate proprio in occasione del lavoro preliminare su questo post.

    Vorrei provare ad articolare questa mia sensazione di disagio, che mi affiora spesso assistendo alla discussione di vicende dolorose come quella di cui stiamo ragionando.

    Mi pare infatti che molto spesso, in occasioni come questa, ci si divida usualmente in varie fazioni, peraltro tutte più o meno già preliminarmente delineate (pensiero “progressista”, pensiero “cattolico”, etc…) e da quel momento in poi si prosegua il dibattito in maniera peculiarmente disincarnata — ovvero affezionandosi più alle idee e al loro contrapporsi dialettico, prescindendo dalla carne e dal sangue, dalla concretezza dell’avvenimento dal quale, pure, si sono prese le mosse.

    Quello che mi sembra (e riporto appena una mia sensazione) è che spesso le due fazioni siano accumunate da una sorta di mancanza, di mancanza di quella cara gioia sopra la quale ogni virtù si fonda (diceva bene Dante). E senza la quale, in fondo, esiste solo la dialettica, esiste solo la speculazione arguta sulle cose (ma non esistono le cose, se non come proiezione mentale, non esistono nella loro spudorata concretezza). E non esiste un punto di riposo, un punto vero dove fermarsi e potersi distendere. Dal quale poi prendere respiro per entrare nel reale.

    Uno si può scoprire accanito difensore dei valori cattolici senza che viva una Presenza reale, nel momento. Così diviene — suo malgrado — praticamente identico al suo preteso “avversario” dialettico. Si fa tanto strepitìo, ma in pratica si sta danzando sul nulla. Troppe volte mi pare sia esattamente così.

    E il segnale di questo è proprio l’affezione alle idee più che alla carne.

    Credo che sia vero — per tutti — quello che diceva Don Giussani, negli anni ’80, ai ragazzi del suo movimento, con acuto spirito critico “Siamo andati avanti per dieci anni lavorando sui valori cristiani e dimenticando Cristo, senza conoscere Cristo. Il problema è Cristo, conoscere Cristo”.

    Tornando alla carne, alla Incarnazione, possiamo trovarci tutti dalla stessa parte nell’avvertire il dolore della precarietà umana, della fallibilità continua, e nello stesso tempo della continua ripresa, del continuo perdono.

    E credo che allora ritorni la possibilità di ragionare e costruire, insieme.

  4. Mi colpiscono i commenti e gli articoli sparsi sul web (come quelli inseriti nelle altre risposte) scritti da personale medico e infermieristico che lavora in terapia intensiva neonatale. Tutti quelli che ho letto condividono le scelte effettuate su Charlie, nessun dubbio, nessuna critica. Da essi emerge che ciò evidentemente rappresenta la normalità in questi casi. Però nessuno (di quelli che ho letto) tiene conto del parere dei genitori del bimbo, dando per scontato che fosse giusto sovrastarlo per legge. C’era una vita che chiedeva di continuare ancora un po’, lo faceva per bocca di mamma e papà, ma non ne aveva diritto.

    Si arriva a dire che il posto in terapia intensiva può essere utile per un altro bimbo che potrebbe salvarsi: questo non ha più speranze e deve lasciarlo. I genitori lo avrebbero liberato volentieri se fosse stato loro concesso.

    Si dice che il viaggio negli Stati Uniti per tentare la terapia sperimentale sarebbe stato troppo pesante per Charlie. Cosa significa? Sarebbe potuto morire inseguendo una speranza? Meglio allora evitargli questa sofferenza e farlo spegnere in un hospice.

    Si dice che ci si è presi cura di lui con tutte le forze, ma era ora di smettere, non aveva più senso. Lo abbiamo tenuto appeso ad un filo, ma alla fine lo abbiamo tagliato noi.

    Si dice che siamo nelle mani di un Altro. E poi a quest’Altro ci sostituiamo.

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