Verso una scienza in relazione

Questa riflessione vuole porsi in continuità ed approfondire il precedente contributo Credere per Conoscere

Le scienze moderne sorte all’interno dell’occidente cristiano, nonostante alcuni conflitti con il potere ecclesiastico (su tutti le vicissitudini di Galileo Galilei), erano tuttavia ben comprese ed inserite all’interno di una visione sapienziale più ampia, come mostrano le riflessioni (diremmo oggi interdisciplinari) dello stesso Galilei, ma anche di Francesco Bacone, Cartesio, Pascal, Locke, Newton, Leibniz, per citarne alcuni tra i più noti. Tutti grandi scienziati e credenti in Cristo. 

Il punto di svolta, che oggi appare a molti come una distanza insormontabile tra scienza e fede, più che ad opera di Kant e dell’Illuminismo, riteniamo che si debba principalmente attribuire alla filosofia positivista di Comte, che ha sganciato le scienze della natura dalle riflessioni metafisiche e teologiche, ritenute oramai come stadi arretrati della conoscenza umana, completamente da superare.

Purtroppo proprio la visione del mondo positivista è stata presto sposata da diversi scienziati e accademici, probabilmente offuscati nella loro ricerca dalla lente distorcente del proprio metodo di indagine, divenuto per loro un assoluto, la vera fonte della conoscenza, verso cui far confluire, in modo riduttivistico, tutta la vastità del sapere umano.

E tutto ciò si è propagato poi nel Novecento con il neo-positivismo, il cosiddetto positivismo logico del Circolo di Vienna, presupponendo di offrire una razionalità analitica ed asettica incontrovertibile, dove troverebbero sensatezza linguistica soltanto le proposizioni della logica matematica e della scienza empirica.

Credo che questa filosofia (spesso inconscia) della scienza moderna, possa a ben ragione considerarsi, riprendendo la terminologia di Marco Guzzi e dal movimento Darsi Pace, come la maschera di una scienza egocentrata. Una scienza che proietta fuori di sé, nel mondo esterno, quel metodo fatto di riduzioni e semplificazioni, finendo col ritenere che la realtà non sia altro che ciò che è afferrabile da quella particolare metodologia. 

Ma una scienza egocentrata è una scienza soffocata al suo interno, incapace di generare creativamente forme sempre nuove di sapere. I grandi scienziati lo hanno riconosciuto con chiarezza e gli sviluppi della riflessione epistemologica del Novecento lo hanno messo ben in evidenza. 

Scienziati come, ad esempio, Henri Poincaré avevano ben compreso quel mascheramento della scienza, ricordando il ruolo fondamentale dell’intuizione nel fare matematica o l’impossibilità di realizzare una morale col metodo scientifico. In una raccolta di saggi pubblicata subito dopo la sua morte, nel 1913, scrive:

«La scienza ci mette in rapporto costante con qualcosa di più grande di noi; ci offre uno spettacolo sempre rinnovato e sempre più vasto; dietro quel che ci mostra di grande, essa ci fa immaginare qualcosa di più grande ancora; questo spettacolo è per noi una gioia, ma è una gioia nella quale ci dimentichiamo di noi stessi, ed è per questo che essa è moralmente sana» 

E più avanti dice:

«L’amore per la verità è senza dubbio una gran cosa; ma sarebbe un bell’affare se, per perseguirla sacrificassimo oggetti infinitamente più preziosi come la bontà, la pietà, l’amore per il prossimo. Alla notizia di una qualsiasi catastrofe, di un terremoto, dimenticheremmo le sofferenze delle vittime per pensare unicamente alla direzione ed alla ampiezza della scossa» 

Insomma, non si tratta sicuramente di quella scienza egocentrata di cui parlavamo prima. È di fatto una scienza in conversione e, forse, già una scienza in relazione. Una scienza che riconosce un oltre, un orizzonte più ampio, un qualcosa di più grande, un mistero che non può essere afferrato, ma che avvolge ed abbraccia.

E forse anche qualcosa in più, dato che quell’abbraccio non stritola, ma produce gioia nello scienziato. Infatti, quel rapporto con ciò che supera lo scienziato, non lascia nella confusione totale, nel caos, ma trova una qualche forma di rispecchiamento, che per quanto minima, è già sufficiente a scorgere un ordine, una direzione, un senso che allieta e, a nostro parere, lascia presagire un’Ulteriorità benefica e benedicente.

Questo passo ulteriore ci sembra compiuto da un altro grande scienziato del ‘900, Max Planck, ideatore della meccanica quantistica che, riflettendo sui rapporti tra scienza e religione, nel 1937 scriveva:

«esse non sono in alcun modo in contraddizione fra loro, ma suonano all’unisono in ciò, che in primo luogo esiste un ordinamento razionale del mondo indipendentemente dagli uomini, e che in secondo luogo la natura di questo ordinamento del mondo non è mai direttamente conoscibile, ma può essere afferrato solo indirettamente oppure sospettato […]. Niente quindi ci impedisce, anzi la nostra inclinazione intellettuale tendente ad una concezione unitaria del mondo lo esige, di identificare fra loro i due poteri operanti su tutto, eppure pieni di mistero, l’ordinamento del mondo della scienza e il Dio della religione»

Una scienza sgomberata da chiusure aprioristiche, ma incamminata verso la verità profonda su di sé, appunto in conversione, si scopre profondamente in relazione con le altre forme di conoscenza e di sapienza che gli uomini hanno maturato nel corso della storia, perché animate dallo stesso desiderio di verità e, diremmo noi, dalla stessa Verità. Lo scienziato può così riconoscere un’armonia di fondo, una tensione verso l’unità, una con-sonanza, quel suonare all’unisono, che permette a Planck di scorgere in quel misterioso ordinamento del mondo le tracce di una rivelazione antropo-cosmica di un Dio che è Intelligenza (Logos) e Amore (Agape).

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Autore: Giovanni Amendola

Matematico e Teologo. Ricercatore in Intelligenza Artificiale e docente di Informatica, Probabilità e Statistica. Studioso e appassionato dei rapporti tra scienza, fede e vita, in continua tensione per pensare sensibilmente. Marito.

14 pensieri riguardo “Verso una scienza in relazione”

  1. Io ho un po’ l’impressione che ciò che sappiamo, tramite l’indagine scientifica, mi verrebbe da dire da Darwin in poi, non ci permetta più di interpretare il legame con la Trascendenza a partire da un ordine cosmico prestabilito di un disegno divino. Ciò che si ricava dalla ricerca scientifica ed è espresso dalla teoria dell’evoluzione mi pare dovrebbe essere innanzitutto preso sul serio. La sfida qui mi sembra sia quella di avere il coraggio di lasciare andare ogni preconcetto metafisico, ogni descrizione della realtà fatta a tavolino, senza paura di perdere qualcosa di fondamentale.
    Non si tratta, d’altro canto, di assumere il pacchetto a scatola chiusa, ma di entrare in un confronto critico con le visioni che emergono dalla lettura scientifica della realtà e provare a capire come in questa lettura della concretezza (lettura necessaria e vincolante seppure non sufficiente), si possa esprimere l’annuncio evangelico. Ma appunto a partire dalla fine, cioè da noi esseri umani che facciamo esperienza di una realtà che ci si presenta con delle regolarità, ma anche con disordine, in un fluire di eventi che accadono nel continuo aggiustamento di circostanze contingenti. Questo però non fa perdere nulla al legame che la coscienza umana può stabilire con il divino, l’Abbà per chi ha fatto propria la fede di Gesù di Nazareth. Perché non avere un destino fissato dalla notte dei tempi non è una perdita, perché l’unico guadagno è la destinazione alla vita piena secondo la promessa di un Dio affidabile.
    Da tempo sto riflettendo sul lavoro di Francesco Massobrio e credo che il suo lavoro apra una prospettiva su cui valga la pena fermarsi.
    iside

  2. Cara Iside, grazie per le interessanti riflessioni.
    Anche io credo che sia imprescindibile ascoltare quanto le scienze vanno cogliendo sulle regolarità del cosmo. In particolare, la dinamica evolutiva del cosmo che conduce alla vita e alla coscienza, lascia presagire, a mio modo di vedere, due elementi da non contrapporre.
    Da un lato, una sorta di “libertà” dell’universo, quella contingenza che si oppone ad ogni stringente necessità, in modo che lo stato attuale del mondo non è la pianificazione nei minimi dettagli di un Dio Orologiaio secondo una visione deterministica (come, ad esempio, in Laplace) o delle sue forme più recenti di un Disegnatore Intelligente.
    Dall’altro lato, si manifesta una regolarità, un senso, un orientamento nell’evoluzione, una sorta di punto di attrazione, una spinta propulsiva verso la vita e la coscienza. In questo, mi sembra di poter anche parlare di ordine (appunto cosmo, in greco), in opposizione invece al caos che è disordine. Il mondo non credo sia guidato, anche nell’evoluzione antropo-cosmica, da un caos indifferenziato e indifferente a tutto, ma da un ordine sensato ed orientato, ciò che la teologia cristiana ha nominato come “provvidenza divina”, come a dire che lo Spirito o il “Cristo Omega” (come diceva Teilhard de Chardin) orienta e guida la materia.

  3. Da umile dilettante, per nulla professionista, sono affascinata da questo tipo di ricerche e mi sto lasciando stuzzicare da approcci che tentano una lettura che provi a cambiare lo schema di fondo della teologia tradizionale, proprio a partire da ciò che le scienze ci dicono.
    L’Orologiaio ormai direi che ha perso la sua fortuna, il disegnatore a tavolino pure. Tuttavia, se ammettiamo “una sorta di punto di attrazione, una spinta propulsiva verso la vita e la coscienza”, non è che rimaniamo dentro lo stesso paradigma dell’orologiaio, soltanto ammorbidito? Come se la vita fosse aprioristicamente orientata, quindi come se dentro avesse un disegno che la spinge.
    Se invece proviamo a dare credito alla teoria dell’evoluzione, vediamo che essa dice altro. Osserva un’auto-organizzazione che riaggiusta gli eventi man mano che accadono nel loro fluire storico naturale.
    Se contrapponiamo il cosmo/ordine al caos ci riportiamo dentro un dualismo contrappositivo che non concilia la libertà auto-organizzativa che vediamo nell’universo.
    Temo a questo punto che la via cosmologica non sia più sufficiente. E se provassimo a lasciarla andare?
    A me intriga prendere sul serio questi studi più di frontiera e provare a leggere l’antropologia e la teologia cristiane a partire dalla fenomenologia della concretezza.
    Mi chiedo: sarebbe un difetto, una perdita o altro, vivere in una realtà interpretata come non sospinta verso una finalità, non finalizzata dall’inizio, ma in una realtà che nel suo apparire si rivela sorprendente in virtù delle forme di vita che genera, compresi gli esseri umani? E se la realtà di cui facciamo esperienza fosse, momento per momento, una sorpresa anche per Dio, sarebbe così sconveniente? In fondo, è la coscienza umana a porsi la questione del senso, del valore di ciò di cui fa esperienza come vita propria ed altrui.
    A me pare che non toglierebbe nulla alla relazione con una Trascendenza accudente, incontro possibile nella libertà di una coscienza terrestre. Per quanto mi riguarda, per ciò che vale la mia personale esperienza, a me non soltanto non toglie nulla, ma dà invece un senso di liberazione per essere riconosciuta figlia del Padre così come sono, qui dove sono.
    iside

  4. Grazie Iside per aver esposto i tuoi pensieri, spero che questo dialogo, possa contribuire a chiarire ulteriormente ciò che ho scritto in precedenza, per tendere, come scriveva Gadamer, ad una fusione dei nostri orizzonti.

    Parli di “cambiare lo schema di fondo della ‘teologia tradizionale’ a partire da ciò che le scienze dicono”. Ci tengo a precisare che per me il termine “tradizionale” non ha una valenza negativa, perché indica l’essere radicati in una tradizione. Piuttosto sono le forme teologiche irrigidite e statiche che abbandonano il flusso della tradizione e del divenire ad allontanarsi dall’ascolto della realtà. Infatti “tradizione” è ciò che si “tramanda”, ma anche che si “traduce”, perché senza “traduzione” (quindi nuovi linguaggi) non c’è vera “tradizione”. Però suppongo che tu ti riferisci con il termine “teologia tradizionale” a chi vive nella rigidità di forme fissate nel passato.

    Teilhard de Chardin, è stato uno scienziato evoluzionista con una visione teologica molto alternativa, non va sicuramente nella direzione di una “teologia tradizionale” (essendo stato, come saprai, ampiamente criticato da tale teologia, ad esempio da Maritain).

    Anche Leonardo Boff, sicuramente fuori dalla “teologia tradizionale” ma in dialogo da sempre con le scienze, scrive: «La verifica dell’ordine dell’Universo determina negli scienziati, da Einstein a Bohm, da Hawking a Prigogine e altri, un sentimento di meraviglia e di rispetto profondo. Esiste un ordine implicato in tutte le cose, permeato di coscienza e di spirito fin dal primo momento. Tale ordine rimanda a un Ordine Supremo: la coscienza e lo spirito indicano una Coscienza Superiore e Trascendente» (L. Boff, Il Dio che sorge nel processo della cosmogenesi, in Il cosmo come rivelazione, 2018, 110).

    Oppure ancora, il teologo evangelico Moltmann scrive: «L’agire di Dio nella storia dei sistemi materiali e vitali aperti – quelli da cui nasce la realtà che noi chiamiamo mondo – va cercato nel futuro che egli dona e nelle possibilità sempre nuove cui egli apre. Tutti i sistemi aperti, quindi, rinviano oltre se stessi, verso la sfera di ciò che essi possono essere. Sul piano teologico sono sistemi da leggere come simboli reali di un futuro nel quale quei sistemi saranno in Dio e Dio in essi, quando potranno partecipare, senza impedimento alcuno, alla pienezza di possibilità che la presenza del Dio inabitante garantisce senza alcuna paura di rimanere distrutti da quella presenza, ma anzi condotti alla meta cui lo stesso Dio li ha destinati. Il fine della kenosi di Dio nella creazione e conservazione del mondo è il futuro che noi qualifichiamo con i simboli di “Regno di Dio” e “nuova creazione”» (J. Moltmann, Scienza e Sapienza, Queriniana, Brescia 2003, 69).

    Riconoscere un fine o una direzione nell’evoluzione cosmica non significa dire che il processo di evoluzione è vincolato ad un determinato cammino da seguire o che Dio sapeva fin dall’inizio cosa sarebbe successo. L’apertura e la novità evolutiva nella storia dell’universo è sostenuta da Dio stesso ed è reale tanto quanto lo è la provvidenza divina che guida il cosmo verso la piena realizzazione e il suo compimento. Non c’è alcuna contrapposizione dunque tra libertà e ordine del cosmo. In modo simile al perché non c’è contrapposizione tra libertà dell’uomo e grazia di Dio.

    A questo punto credo sia chiaro che sono d’accordo con te quando dici che la realtà è “una sorpresa anche per Dio”. Ma questo non è contrario alla questione del fine e del senso.
    Anche quando indichi Dio come “Padre”, riconosci una bontà nel mondo che vale più di ogni malvagità che la vita ti possa presentare, riconosci un senso che è amore. Non stai vivendo nel caos dell’indifferenziato, dove la realtà potrebbe essere indifferentemente odio o amore, malvagità o bontà, ingiustizia o giustizia; dove la fine della tua vita e del cosmo, perché le due cose sono profondamente intrecciate, parliamo infatti di dimensione antropo-cosmica, potrebbe essere l’annientamento assoluto e l’assenza di ogni senso. L’amore/agape ha vinto la morte definitivamente. È il Cristo la direzione evolutiva del tutto: “tutto è stato fatto per mezzo di Lui e in vista di Lui”.

    Giovanni

  5. Grazie Giovanni per questo bello scambio, molto arricchente.
    Sì, hai capito bene riguardo alla tradizione e anzi, grazie per la precisazione. In effetti avevo in mento un riferimento tradizionalista, più che tradizionale, dove come dici bene è la rigidità a prendere il sopravvento.
    A questo punto però credo di dover precisare anche il mio riferimento agli studi di frontiera. Non intendevo dire persone che giocano a fare gli originali per il gusto della stravaganza. Mi riferivo invece a persone che, non necessariamente al centro della scena teologia, ma che, fermamente collocate dentro la buona tradizione, onorano il vangelo e il suo annuncio con la dedizione costante nello studio raffinato. Sono autori che ho imparata ad apprezzare, alcuni anche a livello personale, perché si sente la loro voglia di ricerca, potentemente vissuta nella fede del Figlio.
    Penso alla scuola teologica di Milano con Pierangelo Sequeri (da “Il Dio affidabile” uscito da Queriniana nel 1996 e alla V edizione nel 2013 a quel gioiello che è “Il timore di Dio” Vita&Pensiero 1996 tanto per dire due titoli di alcuni anni fa ma di grande rilievo), Giuseppe Angelini e la sua teologia morale, fino a Duilio Albarello che abbiamo avuto recentemente come ospite in AltraScienza.
    Penso a Giorgio Bonaccorso “Il corpo di Dio” Cittadella 2006 e “Critica della ragione impura” Cittadella 2016 con la sua epistemologia della complessità e il suo monismo non riduzionista.
    Penso a Stella Morra e cito solo un testo dal titolo evocativo “Dio non si stanca” EBD 2015.
    Penso al giovane teologo Francesco Massobrio con “Il cristianesimo alla prova del racconto evolutivo” Mimesis 2018.
    Penso poi ad un biblista che mi ha cambiato la vita: Giovanni Giordano; ha pubblicato poco ma fa un lavoro di annuncio del vangelo da raffinato biblista quale è. Comunque di lui si possono leggere “Imparare a credere” Edizioni Tecniche 1997, “Il Figlio dell’Uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” Edizioni Tecniche 1998
    Penso a Carlo Isoardi anche lui parco nelle pubblicazioni, eppure uomo di grande profondità, ad esempio “Cristianesimo e Antropologia” G. Giappichelli Editore 2012.
    Nella mia esperienza, la grande fame di speranza mi ha fatto alzare le antenne ed essere sensibile a tutto ciò che me la poteva alleviare.
    iside

  6. Cara Iside, sono contento dell’avvenuto chiarimento e anche degli interessanti riferimenti che hai proposto. Tra questi ritengo che il pensiero di Pierangelo Sequeri sia davvero tra i più profondi ed innovativi all’interno della teologia italiana. Aggiungo soltanto uno dei suoi ultimi lavori, “Il sensibile e l’inatteso” (Queriniana 2016), che è un punto di arrivo e di ripartenza, di sintesi del suo pensiero e di spinta verso un’ulteriore ricerca. Un testo non sempre facile da leggere, ma di grande profondità filosofica e spirituale.

    Giovanni

  7. A proposito del rapporto tra scienza e spiritualità, neuroscienze ed intelligenza artificiale, conoscete la Fondazione Federico Faggin? A me pare che il suo assunto conoscitivo e i progetti della Fondazione siano molto interessanri

  8. A proposito del rapporto tra scienza e spiritualità, neuroscienze ed intelligenza artificiale, conoscete la Fondazione Federico Faggin? A me pare che il suo assunto conoscitivo e i progetti della Fondazione siano molto interessanti

  9. Ciao Simonetta,
    ho avuto modo di conoscere Faggin personalmente lo scorso anno, proprio in questo periodo, quando tenne una conferenza di presentazione del suo libro autobiografico “Silicio” (Mondadori, 2019). In tale occasione spiegò il suo pensiero (e la sua esperienza) sulla Consapevolezza nel rapporto con le ricerche sull’Intelligenza Artificiale.
    Restai molto soddisfatto del suo approccio alla questione. Faggin ribalta il paradigma scientifico dominante che, a partire dalla materia, ritiene di giungere in modo riduttivistico alle forme via via più complesse a cui l’evoluzione ha condotto, riducendo di fatto la coscienza/spirito alla materia. Nella prospettiva di Faggin non è la materia a fondare la coscienza, ma la coscienza che dà forma alla materia, il “significato” dà realtà ai “simboli”.
    Una prospettiva che per molti aspetti è ravvisabile in diversi filosofi del passato, ma che ritengo rilevante proprio per il fatto che sia stata formulata, anche tramite un linguaggio rinnovato, da uno scienziato di livello mondiale.
    Giovanni

    1. Caro Giovanni, grazie della risposta.
      Sono lieta che tu conosca Faggin e condivida l’interesse per questo aspetto della ricerca. Ne ho accennato anche a Guzzi, perché mi pareva un ampliamento di campo in sintonia con l’esperienza di Darsi Pace. Complimenti per gli articoli pubblicati
      Simonetta

  10. Cari Giovanni e Simonetta,
    Anch’io conosco qualcosa del pensiero di Faggin, anzi della teoria di Faggin. Difficile per me seguire lo sviluppo della sua teoria proprio dal punto di vista scientifico perché non sono ferrata nell’ambito della fisica , però ho trovato stupefacente nella mia ingenuità che lo scopo che si è prefisso con la sua fondazione sia proprio arrivare ad una dimostrazione matematica della teoria, cioè dell’esistenza di campi di consapevolezza o una cosa del genere, così come Einstein ha fatto con la sua teoria della relatività.
    Chiedo perdono per la mia approssimazione , ma ho letto il suo libro qualche mese fa e come dicevo prima non capendo molto ma rimanendo fortemente impressionata. Mi sono chiesta perché Giovanni la trovi solo rilevante?

    1. Cara Mimma,
      anch’io, pur nella mia ignoranza di questioni fisiche, e se mai più addentro a conoscenze filosofiche, sono rimasta molto colpita dalla posizione di Faggin e della evidente concomitanza delle sue ipotesi con l’ambito di ricerca di Darsi Pace. Egli stesso accenna al suo vissuto esistenziale, alla crisi vissuta anni addietro, seguita da una profonda “conversione” che ha trasformato radicalmente la sua vita personale e la direzione della sua ricerca scientifica.

    2. Cara Mimma,

      personalmente sono stato profondamente e positivamente colpito dalla proposta di Faggin, che trovo enormemente innovativa e sconvolgente anche rispetto alla teoria della relatività di Einstein. Tuttavia, credo che siamo ancora a livello di ipotesi filosofica, ovvero bisogna capire se la sua teoria resti più in ambito filosofico o sia effettivamente strutturabile matematicamente e fisicamente.

      Il paragone con Einstein è interessante, ma la proposta di Faggin sarebbe, almeno per quanto ho potuto comprendere finora, infinitamente superiore, per il fatto che Einstein ha congiunto in modo completamente inatteso grandezze fisiche, come ad esempio massa ed energia, che tuttavia avevano già una loro precisa definizione nella fisica classica newtoniana, mentre Faggin propone una visione scientifica completamente innovativa, volendo introdurre la dimensione interiore, senziente, cosciente, non semplicemente nei termini di una riflessione filosofica “esterna” alle scienze, ma all’interno delle teorie scientifiche.

      Mi permetto infine un chiarimento sulla possibilità di una “dimostrazione matematica dell’esistenza dei campi di consapevolezza”. Ritengo che la matematica non possa dimostrare l’esistenza di qualcosa di fisico, può invece offrire una strutturazione alle teorie della fisica, come lo è stato per la teoria della gravitazione di Einstein. Occorre anche tener presente che ogni teoria fisica resta sempre una ipotesi sulla natura. Come ha scritto anche papa Francesco, la realtà resta sempre superiore all’idea.

      Giovanni

  11. Grazie per la esauriente risposta. Ho sentito meglio che la cosa ti ha colpito .
    Per il resto stiamo a vedere cosa sarà.
    Un caro saluto
    Mimma

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