La prossima volta di Giorgio

Lo so che ora è di moda dire è stato il mio professore eppure lo dico, è stato davvero un mio professore, all’università. Sono contento – come molti – di aver assistito alla sue lezioni a Tor Vergata. Ebbi l’onore di averlo docente, prima ancora che in Istituzioni di Fisica Teorica, perfino in Tecnica della Programmazione, un corso che tenne per un intero anno accademico nell’attesa, se la memoria non mi tradisce, che si predisponesse la cattedra a lui certamente più adeguata.

A quei tempi (epoca profondamente anteriore ad Internet) la parte pratica di programmazione si svolgeva su un mainframe Perkin Elmer – mi pare piattaforma Unix, schermi rigorosamente a fosfori verdi – alla quale si alternava la parte teorica insegnata appunto da Giorgio con generosa passione e con una sua specifica “totalità”, che molti conoscono. Ricordo bene come si buttasse anima e corpo dentro i risvolti matematici di tale materia, ben distante da altri docenti che – qualora costretti dalle circostanze – non mancavano di manifestare disagio per il corso che stavano tenendo e per la distanza da quello che avrebbero invece desiderato.

Giorgio Parisi l’ho conosciuto così. Prima ancora di realizzare quanto fosse geniale, mi ha colpito come incarnasse con massima precisione e limpidezza, lo stereotipo dello scienziato distratto. Perché i luoghi comuni, se si disturbano di esistere, alla fine un po’ devono anche essere veri. In alcune circostanze, devono esserlo.

Giorgio costituisce esattamente una di quelle circostanze, viventi. Lo scienziato con la testa tra le nuvole, esiste. Io l’ho visto. Ricordo che non era inconsueto, per lui, iniziare la lezione dicendo come abbiamo visto la volta prossima e terminare con ma questo lo vedremo la volta precedente. Mi pare che una volta riuscì a fare tutte e due le cose, a compiere questa splendida ed involontaria inversione temporale.

Quello su cui al tempo non riflettevo – ma fa bene farlo qui, ora – è ciò che avrebbe avuto da dire nel rapporto tra scienza e fede. Argomento abusato, lo so bene. Tuttavia in AltraScienza, percorrere brevemente quello che dice un premio Nobel, non mi sembra troppo peregrino. Nel merito, bisogna però fare attenzione. Non ha senso estrapolare qualche frase per portare Giorgio dove piace a noi (come pure, per dimostrare invece quanto non ci piace). Del resto, le diatribe sterili ci hanno stancato, non le sopportiamo più. Ma soprattutto, non ci fanno crescere, non ci permettono di maturare. Quindi in AltraScienza non ci accontentiamo di parteggiare per qualcosa, meno che mai ci interessano le riduzioni di realtà a slogan, così poco impegnativi per il cuore ed il cervello. Desideriamo piuttosto compiere un percorso, utilizzando gli spunti di attualità come elementi di costruzione. Per il pochissimo che possiamo, vogliamo anche noi educare (ed educarci) a pensare.

Pertanto, esporrò quanto segue esclusivamente come possibile spunto di dialogo. In nessun modo potrei essere così presuntuoso da voler chiosare quanto dice un premio Nobel, o tanto meno pontificare sulla piena congruenza filosofica o teologica: essendo appena un astrofisico, non ne ho nemmeno lontanamente le necessarie competenze. Del resto, come è stato giustamente fatto notare, bisogna trattenersi dalla riproposizione decontestualizzata di alcune frasi ad effetto, perché ci portano fuori strada, e non aggiungono niente. Non ho desiderio di imporre nulla, ma di aprire ad un dialogo, in maniera (questo sì) ostinata e continua. Vengo dunque a Giorgio, che mi regala degli spunti interessanti. E come spero concordiate, realmente salutari.

Io penso che la scienza e la religione siano cose completamente diverse. La fisica, e più in generale la scienza, cercano una spiegazione del mondo restando dentro il mondo, mentre le religioni – almeno quelle che conosco io, diciamo le religioni monoteistiche – cercano risposte fuori dal mondo, in qualcosa che trascende il mondo.

Semplicissimo e liberante. Come credente, vengo immediatamente liberato da tutta la filiera di discorsi che intendono dimostrare l’esistenza (o l’assenza) di Dio, analizzando il Cosmo secondo i propri pensieri.

Ho incontrato spesso fisici profondamente religiosi, ma questo aspetto non è quasi mai entrato nel nostro lavoro, nelle nostre discussioni. In fondo, essendo la religione un ambito che cerca le risposte al di fuori del mondo, è difficile che avesse punti di contatto con il lavoro come fisico.

Questo è un altro punto di grande verità. E fa piazza pulita di altri fardelli mentali che spesso ci portiamo addosso. Come scienziato (va da sé, con tutte le debite differenze) anche io ho quotidianamente a che fare sia con colleghi sinceramente religiosi, che con collaboratori convintamente atei, o agnostici. Difficile valutare in poche battute, se e come questo influenzi il loro lavoro. Certo, andrebbe anche specificato che proprio in un atto di fede verso una comprensibilità ultima del reale la scienza si appoggia, trovando consistenza in un “affidamento a convinzioni indimostrate” (come argomenta limpidamente Marco Guzzi nel volume Fede e Rivoluzione). Tuttavia questo appare più come un presupposto filosofico (sebbene decisivo), che un qualcosa realmente necessario alla prassi quotidiana della ricerca. Una cosa mi pare certa: l’Universo si può indagare a prescindere dalle proprie posizioni riguardo l’ambito (letteralmente) metafisico. Insomma, se Dio stesso non costringe nessuno a credere, figuriamoci se può farlo il Cosmo.

Non penso che la religione sia da combattere. Io non sono religioso, ma non ho mai pensato di fare una battaglia contro la religione, tanto più utilizzando la mia autorità di scienziato per esprimermi su quei temi. Mi sembra una follia, senza voler giudicare le persone che lo fanno. (…)

Qui mi viene proprio da esclamare, grazie Giorgio! Perché per quanto possa apparire scontato, in realtà non lo è affatto. Più volte, infatti, mi è capitato di leggere speculazioni di insigni scienziati, che sbordano irresistibilmente dal loro ambito e speculano – un esempio su tutti – sul fatto che l’Universo si sia creato da sé, magari da una fluttuazione del vuoto. Sfugge loro una cosa veramente semplicissima, che il vuoto quantistico (caratterizzato da una sua specifica energia) è totalmente diverso dal nulla filosofico. Possibile? Stranissimo, eppure sembra proprio così. Piuttosto che indulgere in qualsiasi polemica, qui vorrei piuttosto dire che leggo questa dichiarazione di Giorgio come un forte richiamo all’umiltà. Non perché ho passato settimane oppure anni sopra astruse equazioni (o dietro l’oculare di un grande telescopio) ho necessariamente una verità su Dio da comunicare al mondo: molte volte i primi a dimenticarcelo siamo proprio noi scienziati.

Il peso odierno della religione si vede anche perché c’è una ricerca delle persone a valori, significati della vita che la scienza non può dare.

E questo è un dato di purissimo e semplice realismo. Una cosa si definisce anche dai suoi limiti, da quello che non può dare. Così il mondo acquista chiarezza, a vantaggio di tutti.

La scienza ha risposte al mondo nel mondo, ma non spiega il perché del mondo. C’è una vecchia affermazione della dottrina cattolica: “La fede è una grazia”. Io questa grazia non ce l’ho, e quindi le risposte a quelle domande non me le so dare.

Anche qui (ed è interessante notare che una asserzione molto simile è espressa da Ludwig Wittgenstein nel suo celebre Tractatus Logico-Philosopicus) mi colpisce l’atteggiamento di umiltà di questo premio Nobel. A certe cose non posso arrivare solo con le vie della scienza, mi manca qualcosa, non a tutto supplisce la ragione calcolante. Io posso anche padroneggiare i sistemi complessi, e dovermi fermare. Luigi Giussani disse una volta che “La grande grazia da cui la speranza nasce è la certezza della fede; la certezza della fede è il seme della certezza della speranza”, e questo sicuramente ci lancerebbe in territori ove tuttavia esito ad entrare. Ora rimango alle poche frasi di Parisi, non tento cose più grandi di me.

Riprendo infine solo un virgolettato da un intervento di Parisi su Avvenire, di pochi giorni fa.

Vorrei aggiungere che sono sempre infastidito quando nelle interviste mi domandano le mie opinioni religiose. Non mi pare che lo domandino mai a calciatori, cantanti, modelle, categorie per le quali ho il massimo rispetto. Implicitamente gli intervistatori assumono che gli scienziati posseggano una conoscenza privilegiata di Dio, ma non è vero.

In questo lavorare per sottrazione, vedo una possibilità, un intreccio di cammini, scorgo un segno di costruzione. Prima di tutto forse è questo, che riapre il dialogo, la ricerca. Sapersi fermare, capire dove la ragione non può derivare conclusioni, toccare i bordi di un limite. Come segno di qualcosa che ci supera, e superandoci ci recupera a quel senso di mistero, che ci dona linfa quotidiana.

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Autore: Marco Castellani

Astrofisico, divulgatore, scrittore.

6 pensieri riguardo “La prossima volta di Giorgio”

  1. Grazie Marco,
    Molto bello il tuo commento alle parole di Parisi. L’ho letto con grande piacere. Solo alla fine sarei stato meno concorde… Insomma chiedere di “Dio” a qualcuno che rappresenta in qualche modo l’apice della scienza e del sapere, mi sembra più che lecito… Sentirsi a disagio, lo capisco… Ma credo anche che questo sia un punto critico, una ferita, nel nostro sapere universitario. Insomma le domande su Dio sono solo per filosofi e teologi? Spero di no…

    1. Caro Giovanni, non vorrei sembrare cerchiobottista, ma capisco sia il tuo rilievo che la frase di Parisi.

      Non so, a volte mi sembra che possa avere un’idea più chiara di Dio un umile contadino che un grande cattedratico (contadini ne conosco assai pochi a dire il vero, ma per l’altra categoria, ebbene ne ho conosciuti e ne conosco). Temo, per dirla tutta, che a volte il sapere inquini un po’ la visione e renda difficile l’umiltà.

      Quindi accolgo con favore questa affermazione di Parisi che sembra voglia ristabilire un po’ di equilibrio dove forse noi – mi pare – siamo sbilanciati verso il primato dell’esercizio delle facoltà mentali. Davvero ho trovato insigni scienziati, come scrivo nell’articolo, lanciarsi in elaborazioni metafisiche che perfino a me – che ne so poco davvero in materia – sono apparse povere e mal fondate.

      Ma queste sono mie considerazioni spicciole, senza reali fondamenti filosofici, per cui prendile un po’ per come sono, senza dare loro troppo valore…

      Grazie per il tuo contributo!

  2. A me ha colpito, tra il resto, la contrapposizione che Parisi mette tra il “dentro il mondo” e il “fuori dal mondo”.
    Credo che questo sia un equivoco che ha imperato per secoli e rispetto cui forse ora, come umanità del III millennio, iniziamo ad avere gli strumenti per affrontare in modo diverso.
    Come esseri umani non possiamo che stare dentro il mondo, con tutto noi stessi, perché questa è la condizione per il nostro vivere. Tramite il metodo scientifico impariamo, piano piano, a capire qualcosa sul funzionamento del mondo e quindi su una delle modalità possibili di interagire con la realtà di cui siamo parte. L’approccio scientifico ci aiuta, come ogni produzione culturale umana, ad entrare meglio nell’esperienza dello stare al mondo, guardando dentro di noi, scendendo in profondità e lì scoprire le risorse della coscienza. Tra queste, c’è anche l’ascolto di un presentimento di altro-da-sé, un’eco di altrove che si coagula nella cosiddetta “voce della coscienza”, una spinta a mettersi in ricerca del giusto senso da dare alla propria vita. E quseto senso è da trovare qui, per la vita di cui abbiamo esperienza.
    A me pare duqneu che per un cristiano, il movimento sia esattamente al contrario: non è tanto andare fuori dal mondo, quanto riconoscere le tracce di una trascendenza che si è fatta carne del mondo e ha mostrato il suo volto terrestre.
    Personalmente, ho più l’impressione, e per me il desiderio, che occorra imparare ad entrare sempre di più nell’esperienza concreta dello stare al mondo, dentro il mondo.
    Grazie per questa occasione di riflessione.
    iside

    1. Grazie Iside!

      Non sono esperto in simili questioni, ma mi viene in mente una cosa, al proposito della citata contrapposizione tra “dentro il mondo” e “fuori dal mondo”. Farei per questo un piccolo passo indietro, tornando alle parole (che sono importanti, come è noto). Cosa è propriamente il “mondo”, prima di tutto? Forse dobbiamo tornare a chiederci questo. Perché poi tutto il resto in qualche modo ne è conseguente.

      Non è banale rispondere. Io penso che Parisi usi questa dizione intendendo “universo fisico”, ovvero l’insieme di materia-energia che possiamo indagare per via empirica e del quale possiamo inferire delle leggi di comportamento.

      Cosa che per me non è affatto “tutto il mondo”.

      Di nuovo, è anche quello che dice Marco Guzzi nell’intervista che gli abbiamo fatto come gruppo AltraScienza. La scienza studia l’universo fisico, che è una parte della realtà (a mio avviso), non è “tutta la realtà”. Nella realtà esiste la coscienza e un insieme di cose non indagabili dalla fisica o dalla biologia, per esempio. Diceva Teilhard, già ottanta anni fa, che la scienza studia “l’esterno” delle cose mentre “l’interno” non lo tocca nemmeno: da lì la tentazione, scorciatoia mentale, di dire che l’interno delle cose non esiste proprio. Invece di dire che la scienza studia appena il mondo fisico, si definisce mondo quello studiato dalla scienza. Bizzarrissima posizione, forse attraente per una (direi malintesa) semplicità, ma gravemente incompleta.

      Eppure capita, capita. Quando si asserisce che “La scienza ha dimostrato di essere il nostro strumento migliore per conoscere la realtà”, non si compie una involontaria ma drammatica riduzione della realtà a “natura”?

      Ecco, se si prende “mondo” nell’accezione più vasta, non c’è niente che mi tocchi che sia propriamente “fuori dal mondo”. Qualcosa c’è, a mio avviso, che sfugge allegramente alle leggi del mondo fisico, della natura. Ma non è fuori dal mondo, è totalmente nel mio mondo, nel mondo che “vivo” come creatura in questo pianeta.

      Quindi io penso che sia tutto lì, in una definizione errata. Parisi identifica il “mondo” con il “mondo fisico”. Per cui “fuori dal mondo” è per lui “fuori dalle regole fisiche”. Ma appare che ciò che è libero dalle regole della fisica è prepotentemente dentro il mio mondo, e in realtà in quello di tutti, che lo sappiano o no.

      Che poi, gli incastri di ciò che è oltre la fisica, con la fisica stessa, sono imprevedibili e misteriosi. Cioè poetici. Come infatti dice Eliot, ricordato di recente da un bell’articolo di Luca,

      «La curiosità degli umani esplora passato e futuro / E si avvinghia a quella dimensione. Ma afferrare / Il punto di intersezione del senza tempo / Col tempo, è un lavoro da santi – / E neppure un lavoro, ma un che di donato / E ricevuto, nel morire di una vita nell’amore, / Nell’ardore, nell’abnegazione, nella resa di sé».

  3. Ho apprezzato molto l’articolo ma vorrei dare un mio umile contributo, uno spunto di riflessione. Si dice che la scienza dà risposte e/o fa ipotesi in merito “a questo mondo” mentre la religione si occupa “di qualcosa che non è di questo mondo” (ho semplificato ovviamente). In realtà questo tipo di visione può essere corretta nel caso in cui ci si riferisca alle religioni monoteiste: è infatti con l’avvento delle religioni monoteiste che si colloca il divino “in un cielo lontano”, quindi al di fuori del mondo fenomenico della quotidianità (e ricordiamoci che l’avvento delle religioni monoteistiche coincide con una ben precisa organizzazione socio/politica: individuare un unico “dio” in cui credere era funzionale alla creazione di una religione di stato che quindi facilitasse la gestione del potere da parte di chi lo amministrava – come nel caso del cristianesimo da parte dell’imperatore Costantino). Nelle religioni non monoteiste come animismo, shamanismo etc invece la realtà fenomenica e quella, diciamo, spirituale, erano strettamente legate ed interdipendenti. Ci sono oggi realtà spirituali che si rifanno allo sciamanismo ed altre correnti religioso/filosofiche orientali, che invece si legano strettamente alla visione scientifica e principalmente alla fisica quantistica. Queste “correnti” spirituali, supportate anche dalla psicologia immaginale (nata con James Hillman) leggono la realtà fenomenica come un campo percettivo ed energetico complesso in cui i temi spirituali si incontrano sinergicamente con quelli prettamente scientifici. Siamo in un momento storico in cui si comincia a vedere una convergenza tra le due cose, in cui si può ad esempio parlare di terapia e medicina sacralizzate senza necessariamente dividere i due campi ma anzi farli dialogare. Forse la vera evoluzione umana sta proprio nel ripotare “quel Dio lontano” all’interno del
    Mondo e farlo dialogare con la scienza .

  4. La distinzione fra il mondo e il fuori dal mondo mi sembra infine fuorviante. A mio parere, e ovviamente posso sbagliarmi, c’è una sola cosa che la scienza presenta (anche in base alla famosa equazione di Einstein) come esistente e cioè la “materia-energia” in continua trasformazione nello spazio-tempo, e penso che una risposta soddisfacente a qualsiasi enigma dovrebbe infine essere ricondotta a tale ambito. Certo, Teilhard de Chardin propone l’esterno delle cose e il loro interno, ma dovrebbe essere ormai abbastanza ben acquisito che, sebbene Entropia e Informazione siano continuamente all’opera, l’esterno delle cose è sotto l’azione preminente dell’entropia mentre l’interno è sotto l’azione preminente dell’informazione; penso, del resto, che Teilhard fosse su questo punto concorde (anche se cosciente del cammino ancora da fare) come si evince da questa sua frase: “«… tra questa misteriosa deriva del mondo verso stadi sempre più complessi ed interiorizzati, e l’altra deriva (quella molto più studiata e meglio conosciuta) che trascina lo stesso mondo verso stadi sempre più semplificati e esteriorizzati, – tra queste due derive, dico, esiste una relazione? E quale? I due movimenti (vita e entropia), quantitativamente (si dirà) di così diversa importanza, non sarebbero in realtà della stessa ampiezza, dello stesso ordine, e in qualche modo complementari l’un l’altro? E, in questo caso, sotto quale forma prevedere lo sviluppo finale del fenomeno? In quest’ultima domanda tende forse a concentrarsi e a formularsi, per la scienza di domani, l’enigma essenziale dell’universo.» (Pierre Teilhard de Chardin; La scienza di fronte a Cristo; Il Segno dei Gabrielli Editori; 2002; p. 242). Oggi l’azione dell’informazione è molto meglio conosciuta che al tempo di Teilhard e sarebbe bene che se ne tenesse conto perché il futuro sarà sempre molto diverso da quello che ci si aspetta. Grazie dell’atenzione. Antonio Leonardi

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