Divulgazione 2.0: virtù e rischi

Da internauta attento a quello che accade sulla rete, in particolare YouTube, noto negli anni essere esplosi con grande attenzione di pubblico ottimi canali divulgativi fatti da giovani appassionati, spesso anche accademici, sia youtuber professionisti che non; portano avanti divulgazione scientifica di ottimo livello, nulla da invidiare a storiche trasmissioni TV classiche targate “Piero Angela”. Anzi, la rete consente livelli di approfondimento molto elevati: anche se il pubblico è meno numeroso rispetto a quello che poteva esse un bacino televisivo di trasmissioni storiche come quark, il livello di approfondimento è decisamente maggiore e la conseguenza è che i temi trattati arrivano a livelli quasi universitari, pur mantenendo un carattere divulgativo: abbiamo perso in ampiezza di pubblico, ma abbiamo guadagnato in profondità. 

Alcuni esempi: da link4universe di Adrian Fartade (astronomia e astronautica) a Entropy for Life di Giacomo Moro Moretto (biologia ed evoluzione) poi diversi canali di fisica: da Amedeo Balbi (accademico di Tor Vergata) a Marco Coletti con il suo “la fisica che non ti aspetti”; e poi Ruggero Rollini (chimica), e Geopop di Andrea Moccia (geologia) fino ad arrivare ad approcci con modalità di linguaggio fuori dall’ordinario come Barbascura X dove, pur con il giusto rigore, la forma è stravagante e irriverente. Molti di questi progetti sono a taglio semi-professionale o completamente professionale, sono presenti in diversi social (Telegram, Facebook, Twitter) anche con richiesta di supporto da parte dei fan per sostenere il progetto con piattaforme di libera sponsorizzazione, il più diffuso dei quali è il patreon che in qualcuno dei casi consente agli youtuber di mantenersi come un vero e proprio lavoro. Non mancano canali non scientifici che però riprendono sovente temi legati alla scienza e anche alla fede con contenuti per nulla banali, come Roberto Mercadini (benché professo ateo). La lista non può che essere parziale.

Che dire? Un bel fermento! Divulgazione 2.0, verrebbe da dire.

Mi è capitato di commentare un paio di questi ottimi video, nello specifico nel canale Pepite di Scienza a cura di Simone Baroni [1] [2], in cui vengono riprese, e spiegate in modo molto efficace e chiaro, concetti già presenti nel famoso libro di Carlo Rovelli [3]. Si passavano in rassegna le motivazioni per cui il concetto di presente o di tempo “non esistono” secondo i parametri che siamo abituati a pensare noi uomini della strada, poco avvezzi alle esperienze relativistiche, non appartenenti alla quotidianità. Benissimo.

Ma ecco che vari commenti letti sotto ai video come questi mi hanno fatto riflettere su quello che potrebbe, o dovrebbe fare, un divulgatore. Purtroppo anche se non viene detto, il messaggio implicito che spesso il destinatario percepisce, digiuno di principi e argomenti tanto di scienza, tanto di filosofia, può essere a rischio di conclusioni errate.

Tornando all’esempio di cui sopra; è innegabile infatti che chi ascolta certe affermazioni con molta facilità possa, tra sé, concludere cose del tipo:

allora tutto è un’illusione…

oppure

viviamo dentro matrix

o cose del genere. Per di più vi è l’aggravante che questi contenuti provenendo dal verbo scientifico sono percepiti come “essere veri” in quanto tali (altro bias concettuale); come se la scienza fosse dogmatica o maestra di senso, di filosofia, o financo poter confutare fedi o tradizioni filosofico-religiose. Questo avviene puntualmente in certi video divulgativi che vanno a toccare certi temi.

Naturalmente lo scienziato o il divulgatore serio non farà mai affermazioni compromettenti di questo tipo in modo esplicito (ci sono autorevoli eccezioni a questo, come il Tao della Fisica di Fritjof Capra, ma non è la regola). Stare però nel mondo culturale in cui viviamo immersi tende a farci fare queste conclusioni, e questo credo che sia un grande danno, proprio per la scienza che rischia di essere percepita, suo malgrado, come “maestra di senso” il che vorrebbe dire dare una connotazione religiosa alla scienza: il paradosso diventa dunque che le migliori intenzioni, possono provocare il suo opposto: una visione distorta della scienza che pure si voleva divulgare; una sorta di religione, in violazione del principio di laicità e delle stesse intenzioni del divulgatore. E questo non a causa dei contenuti della scienza, o di come viene divulgata, ma a causa del complesso di presupposti culturali nel quale il contenuto divulgativo viene erogato.

Trovo che molti divulgatori scientifici, nonostante facciano un ottimo e immenso lavoro sul piano dei contenuti, sottovalutino in generale le conseguenze implicite di ciò che viene divulgato e si rischia – nonostante tutta la buona volontà – di far percepire la scienza per quello che non è. Il destinatario del contenuto divulgativo non è uno scienziato o spesso non ha cultura scientifica: quando si parla di certi temi emergono spontaneamente nella mente pensieri che si intrecciano con la cultura, la filosofia, le convinzioni religiose (che siano atee o meno non importa) e la storia delle singole persone; insomma un mondo interiore sul quale il divulgatore quasi mai si interroga, o ignora totalmente. Ecco che divulgare solo con il linguaggio della scienza rischia di creare fraintendimento. Il divulgatore può ignorare tutto questo? Non si può fare spallucce dicendo che certuni aspetti di senso “non riguardano la scienza” perché anche se questa affermazione è vera, riguardano invece il destinatario che fruisce di quella informazione, ed è compito del divulgatore assicurasi che il messaggio sia arrivato corretto, e non solo che sia stato detto correttamente (correttezza ed efficacia del messaggio sono due parametri distinti).

Il divulgatore scientifico “2.0” insomma deve anche saper andare oltre il linguaggio scientifico e chiedersi che cosa accada nella mente dell’ uomo qualunque quando arrivano certe affermazioni al destinatario, soprattutto per certi tipi di contenuti, come ad esempio un tema delicato e sensibile come “il tempo” nell’esempio visto sopra. Ma per fare questo bisogna attingere a patrimoni culturali che non sono scientifici ma appartengono alla fedi, alla letteratura, alla filosofia etc… perchè l’uomo, chi ascolta, è fatto anche di questo: ora mentre lo scienziato può ignorare tutto questo quando parla nel suo linguaggio disciplinare ad altri colleghi, non può farlo il divulgatore.

Questo andare oltre è importante anche per superare le famose “bolle” che la logica mediatica di internet impone, e superare così le barriere culturali tra pensieri diversi: se il divulgatore divulga scienza solo fra gli appassionati di scienza, raggiungerà il suo scopo? E se questi traggono conclusioni errate o non pertinenti alla scienza stessa, avrà fatto egli un buon lavoro? Superare queste bolle è la vera sfida mediatica di chi usa la rete per produrre contenuti informativi, quindi anche di divulgazione.

Può essere strano a dirsi, ma una buona divulgazione scientifica non è tale se parla solo di contenuti scientifici. Questo è necessario proprio per difendere la laicità della scienza. Bisogna chiedersi, anche a costo di essere prevenuti, se l’ascoltatore non sia a rischio di fare delle conclusioni errate che sconfinano in altri ambiti che non sono scientifici (filosofia, fedi varie etc…). La “richiesta di senso” anche se non è una esigenza della scienza, lo è senz’altro dell’essere umano, ed è giocoforza che tale meccanismo scatti più o meno automaticamente nella sensibilità di chi fruisce il contenuto divulgativo: cioè la persona intera, con tutto il suo mondo, culturale e di senso, che lo caratterizza.

E’ dovere del divulgatore avere sempre bene presente e mettere sempre in chiaro, nel suo comunicare, che questa “esigenza di senso”, del tutto legittima, non compete alla scienza, ma ad altre discipline umane, la filosofia, la fede sia in senso classico, che agnostico o ateo.

Altrascienza propone un modo altro di concepire filosoficamente la scienza, allo stesso modo la divulgazione, specialmente nel mondo 2.0, dovrebbe farsi altra nell’altro per essere davvero se stessa.

Riferimenti:

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Autore: Fabrizio Sebastiani

Classe 1975, laureato in Informatica, fin da adolescente appassionato di scienze, in particolare astronomia e fisica. Sulla via di damasco incontra la fede cristiana e, apprendendo anche di teologia, è sempre in cerca di una sintesi tra una fede ragionevole e una ragione solida ma aperta al mistero. Sposo e padre di due figli.

4 pensieri riguardo “Divulgazione 2.0: virtù e rischi”

  1. Come sempre un articolo interessante, anche se penso che i 'divulgatori scientifici' raramente si preoccupino, né vorranno farlo, di come il lettore 'capisca' o 'intenda' ciò che lo stesso stia divulgando, al di là dell'aspetto 'meramente' scientifico.

    JC

  2. Caro Fabrizio,

    Grazie per le tue riflessioni sulla divulgazione scientifica. Tuttavia, la mia visione della scienza è un po’ differente.
    Nel testo dici che “lo scienziato può ignorare tutto questo [fedi, letteratura, filosofia, etc.] quando parla nel suo linguaggio disciplinare ad altri colleghi”. Siamo sicuri che possa ignorarlo? La situazione attuale è generalmente come la descrivi: tutti quegli altri aspetti sono pressoché ignorati, perché dati per scontato.
    Ma proprio tutto ciò contribuisce a creare quelle “bolle” anche all’interno del mondo accademico scientifico. Ad esempio c’è un’enorme difficoltà a comunicare tra matematici e biologici, o tra informatici e fisici, e così via. Si dà per scontato che il proprio “gioco linguistico” (per citare Wittgenstein) sia il linguaggio più chiaro che possa esserci. E questo è ovvio per chi parla quel dato linguaggio, ma soltanto perché è il proprio.
    La divulgazione accentua queste difficoltà comunicative in modo enorme, perché quell’estrema specializzazione del linguaggio dovrà giungere ad altri che non conoscono completamente la lingua.
    Ma siamo sicuri che la scienza, e a maggior ragione il suo linguaggio, non dipenda da tutto questo contesto di fede, cultura, ambiente sociale, ecc?
    Esiste davvero una “laicità della scienza” da difendere? Anche la scienza si muove dentro paradigmi culturali e di senso tutt’altro che “laici”, sebbene creda che siano tali. Ritengo che questa scienza “asettica” a cui ti riferisci, nella realtà dei fatti non possa esistere. La stessa fisica, utilizza termini come “forza”, “campo”, “tempo”, “spazio”, “particelle”, “onde” che non sono per nulla neutrali, ma sono essi stessi all’interno di un contesto di senso. Danno senso al mondo che si vuole descrivere. E neppure possiamo pretendere quell’esattezza dal linguaggio scientifico, dato che quello che doveva essere il più rigoroso, il linguaggio della matematica, non la può garantire. Infatti, come ha insegnato il buon Gödel, nessuna teoria matematica può dimostrare la propria coerenza interna, sancendo la fine del mito del linguaggio esatto.
    Sebbene, ancora oggi, la scienza nel suo farsi e nel suo darsi ponga poco in luce “l’esigenza di senso”, essa non è per nulla irrilevante nel fare scienza. È soltanto, nascosta sotto il tappeto. In futuro credo che “l’esigenza di senso”, che attualmente sembra non competere a questa modalità (illusoria) di fare scienza, dovrà essere portata a livello di consapevolezza nella scienza stessa. In modo che la scienza non si offra più per quello che non è e non può essere, ma si dia anche nella sua ineliminabile dimensione sapienziale.
    Ben venga dunque il tuo invito ad una divulgazione che espliciti l’esigenza di senso, ma credo che prima ancora questa esigenza dovrà essere esplicitata dagli stessi scienziati all’interno del loro fare fare scienza.

    Giovanni

  3. Ringrazio Fabrizio per l’interessante articolo, pieno di spunti, e Giovanni per aver aggiunto ulteriore valore di riflessione a questi temi, assai importanti per una riflessione moderna sulla scienza e sulla sua comunicazione.

    Mi riaggancio ora a Giovanni, specialmente quando dice

    “Esiste davvero una “laicità della scienza” da difendere? Anche la scienza si muove dentro paradigmi culturali e di senso tutt’altro che “laici”, sebbene creda che siano tali.”

    Leggendolo mi ha fatto pensare al testo di Marco Guzzi, “Fede e rivoluzione“, nel quale la scienza, se pur assente nel titolo, viene a innestare una sorta di “basso continuo” lungo tutto il volume. Volume agile ma poderoso, che già dalle prime pagina affronta il tema di cui stiamo parlando, ovvero del fatto che la scienza non possa considerarsi “libera” dall’adozione preliminare di un sistema di credenze, o per meglio dire, non possa non basarsi anche essa su un “atto di fede”, preliminare alla possibilità stessa del conoscere.

    Per una più ampia esemplificazione di questo (lo dico anche per Giovanni che assai legittimamente può ignorare il nostro specifico pregresso), rimando ai due articoli che abbiamo pubblicato qualche anno fa, al seguito stretto dell’uscita del volume, ovvero “Fede e verità” e a seguire “Un nuovo modo di vedere“.

    Nel complesso, il dettagliato commento di Giovanni si innesta dire molto concordemente su quanto già abbiamo avuto modo di scrivere, su un tema comunque fondamentale e assai poco recepito (anche dalla comunità scientifica), apportando nuovo valore e corroborante conferma.

  4. Anche a me pare che ciò che nel post viene riferito ai fruitori della divulgazione debba essere esteso ai divulgatori e agli scienziati. Infatti, è una questione squisitamente umana, quindi in realtà vale per ciascuno di noi, sempre. Nel senso che, come creature storiche, non possiamo prescindere dal contesto culturale (inteso in senso lato) in cui siamo immersi: la lingua che parliamo, le credenze cui ci affidiamo, le convenzioni sociali che regolano le nostre relazioni ecc.
    Questo però a me pare non sia da considerare un difetto, ma semplicemente il nostro modo di stare al mondo. Certo è importante esserne il più possibile consapevoli: sapendo che il contesto ci influenza, possiamo valutare in che modo questa influenza agisce su di noi e quindi fare eventuali aggiustamenti per non esserne solo ricettori passivi.
    iside

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