Superstizione?

Facciamo ora un test per valutare il tuo pensiero magico: così la dr.ssa Sophie Page si rivolge al giovane giornalista della BBC, Anand Jagatia, durante l’episodio di CrowdScience che sto ascoltando. L’argomento è intrigante. Mi piace scovare le trappole cognitive, i bias del pensiero, le euristiche che se ci aiutano nelle decisioni da prendere così su due piedi, rivelano poi le loro magagne una volta sottoposte ad una riflessione più attenta.

Mi preparo anch’io alla prova.

Prima domanda: hai un portafortuna?

No! Rispondiamo all’unisono Anand ed io.

Seconda domanda: se avessi un oggetto per te speciale, ad esempio un gioiello, che ti fosse stato regalato da una persona per te speciale e se avessi la possibilità di sostituirlo con un gioiello identico, lo scambieresti?

Anand è riluttante ad ammettere che non farebbe lo scambio, comunque timidamente farfuglia che no, in ogni caso, non crede che l’oggetto sia equiparabile ad un portafortuna. Sophie prontamente spiega che qui entra in scena la connessione emotiva ad un oggetto inanimato che come esseri umani facciamo fatica a non stabilire, lasciando intendere però che quella connessione sarebbe da guardare con occhio razionale e distaccato per non lasciarsi ingannare. Perdiamo punteggio, Anand ed io, e scivoliamo verso il pensiero magico…

A questo punto mi viene un tuffo al cuore e la terza domanda sui rituali scaramantici sfuma nel sottofondo del mio cervello.

Sono un’appassionata di scienza, lo sono per formazione accademica di gioventù, lo sono come dilettante che continua a seguire la divulgazione scientifica per tenersi aggiornata. Credo fermamente che le conoscenze che riusciamo a mettere insieme grazie al metodo scientifico siano assolutamente ineludibili. Tuttavia… mi è sembrato che qui si sia fatto un doppio salto mortale scavalcando l’umano a pié pari.

Hanno allora iniziato a frullarmi in testa le letture di neuroscienze di Antonio Damasio e le conversazioni con Duilio Albarello, amico teologo.

Siamo ancora laggiù, al mero dato di fatto, all’evento in sé, alla ragione pura, purissima, che riduce l’esperienza dell’uomo all’esito della cognizione logico-razionale? Peccato che Homo sapiens sia molto, ma molto di più, proprio come peculiarità di specie.

Non è più tempo di tifoserie per questa o quella facoltà, per dire che la volontà è più importante del sentire, che la percezione inganna e perciò non conta.

Nulla nella nostra vita è appunto un mero dato di fatto, tutto è mediato simbolicamente. Dal linguaggio in avanti, praticamente niente ha un significato letterale: per noi il significato si dipana da emozioni, sistemi di credenze, narrazioni, da simboli che vanno ben oltre il confine del materiale di cui è composta l’oggettività.

Ritorniamo alla trasmissione della BBC da cui sono partita, motivo del mio tuffo al cuore. Un conto, mi pare sia l’attribuzione ad un oggetto inanimato di caratteristiche che non gli sono proprie, come ad esempio credere che rompere uno specchio porti sfortuna ovvero cambi il corso di eventi in realtà indipendenti. Infatti, in base alla definizione data proprio dalla Page, il pensiero magico si manifesta quando “si pensa, si sente o si crede che le proprie azioni abbiamo un impatto sul mondo fisico che in realtà non possono avere secondo le leggi di causa-effetto.”

Ben diversa invece mi pare l’attribuzione di significato emotivo ad un oggetto, così come ad un evento. Quante volte diciamo, dando un regalo, “è un pensiero”: appunto ciò che è in gioco non è tanto l’oggetto materiale, quanto il pensiero che lo accompagna, l’affetto che quella concretezza mi aiuta a veicolare, il rapporto di amicizia che fluisce tra di noi. Ovviamente so benissimo che l’oggetto non è l’amico e non ha in sé nessun potere di amicizia. Il suo valore simbolico però mi fa vedere oltre l’oggetto stesso, mi racconta la storia della nostra relazione amicale, mi fa toccare con mano l’affetto che tu provi per me.

Non credo che qui siamo nel pensiero magico, credo invece che qui siamo nel cuore dell’umano, dove ad ogni cosa e ad ogni evento viene assegnato un significato che immediatamente rimanda oltre quell’oggetto o quell’evento.

Il nostro rapporto con la realtà è infatti fin da subito dotato di una valenza positiva o negativa. Sia la percezione sensoriale, sia l’interocezione (cioè la percezione proveniente dai visceri) ci danno sempre un rimando di piacevolezza / soddisfazione o di disagio / dolore. Il dato di fatto percettivo cioè è fin da subito polarizzato verso il piacere o verso la ripugnanza che poi ai livelli di elaborazione mentale superiore diventa una valenza tra utile e dannoso, fino a tra buono e cattivo. Sia ai piani più inconsapevoli ad evoluzione più antica dell’omeostasi mediata chimicamente e neurologicamente, sia ai piani della consapevolezza etica della scelta responsabile, è un continuo mettere in atto l’opera del discernimento per distinguere tra ciò che è realmente promettente ed incontra il nostro desiderio di vita e ciò che invece non lo è o lo è solo in apparenza.

Il dato di fatto è dunque insufficiente da solo, siccome esso esiste in molti modi (valenza) e non tutti sono vantaggiosi / promettenti per l’uomo. Allora occorre compiere il passaggio al piano del simbolico, cioè al piano del significato del valore della Realtà.

Se il dato di fatto ci fosse sufficiente, la vita si ridurrebbe ad un puro processo naturale di nascita, crescita, riproduzione, morte-estinzione. Eppure non ci sentiamo affatto la pura applicazione particolare della legge universale per cui in natura “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Appunto perché ciò che caratterizza l’approccio dell’uomo con la realtà di sé e del mondo è proprio il passaggio dal dato di fatto alla sua dimensione simbolica: è questo che rende l’uomo spirituale.

Mi pare perciò che se vogliamo davvero imparare a conoscere a fondo il nostro essere sulla Terra, non possiamo fare a meno di indagarne il senso. Pertanto anche il metodo scientifico, come tutte le altre modalità con cui cerchiamo di leggere la Realtà, non può procedere da solo come se fosse l’unica interpretazione possibile. Fatta salva la specificità delle discipline che ci consentono angolature differenti sul noi stessi e sul mondo, abbiamo bisogno di tenere insieme le prospettive, perché partiamo da un uomo conoscente complesso e relazionale e perciò la conoscenza che ne deriva non potrà che avere lo stesso stampo di complessità e di relazionalità.

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Autore: Iside Fontana

Laureata in Scienze Biologiche, cristiana, appassionata dell’interrogazione teologica e di tutto ciò che si cimenti nel tentare una sintesi del pensiero per una conoscenza profonda del mistero della vita. Single.

4 pensieri riguardo “Superstizione?”

  1. Sembra che la giornalista dia per scontato che il pensiero magico, o in questo caso il pensiero magico-emotivo, sia qualcosa di intrinsecamente negativo, in quanto appartenente a una psicologia barbara e irrazionale. Pero seguendo la linea di Wilber, mi sembra che sia importante fare un distinguo tra l’esperienza coscienziale catalogata come “magica”, che ha una sua concretezza e una sua validità nell’interiorità umana, e che va appunto riscoperta sotto una nuova luce, e l’interpretazione di quest’esperienza filtrata per il pensiero magico, che in molti aspetti va invece di certo superata.

  2. Sono contenta che tu abbia ribadito qui che il pensiero scientifico non è l’unica forma di conoscenza della realtà e di sapere.
    Sì l’uomo è un essere multiforme, soprattutto è un essere simbolico e crea linguaggi diversi, per esempio: musica, arte figurativa, poesia, racconti, sistemi filosofici , e tutto questo non è frutto di errori logici o di conoscenza limitata. o di follia, ma della ricchezza delle facoltà umane, che superano il piano dell’esperienza e tendono ad andare sempre oltre. E la superstizione non c’entra, essa è frutto di conoscenza superficiale e di paura. Tipico del bambino è il pensiero magico, ma l’adulto ha varie possibilità di scelta :quando voglio guarire da una malattia mi affido alla scienza medica, quando scelgo di mettermi in relazione con Dio, mi metto in preghiera, quando ho bisogno di ritrovare me stessa nel profondo, mi rivolgo alla poesia, quando ho bisogno di stare con gli altri, scelgo un discorso narrativo sincero , che si faccia ascoltare e diventi dialogo costruttivo. E cosi’ via, con molteplici possibilità.
    Un uomo che fosse solo e sempre uno scienziato, sarebbe una creatura limitata e infelice.

  3. Cara Iside,

    mi è piaciuto tantissimo questo post, perché mette proprio il dito su un punto che a volte fraintendiamo, ed è un punto assai importante, come hanno sottolineato anche – e bene – i commenti di Mariapia e di Carlo, prima di me.

    La cosa non è affatto scontata, perché per molta gente (e per una parte di noi stessi, in realtà) l’unica forma di sapere è davvero quella scientifica. Anche io sono cresciuto imbevuto di questo pregiudizio: pregiudizio che rende in sé difficile perfino una vita di fede, che una parte di sé giudica come irrazionale o infondata.

    E’, di converso, una grande liberazione, approdare al fatto che ci sono tante modalità di conoscere, e la scienza è soltanto una di queste. Una modalità potentissima, ma una tra le molte.

    Credo – e qui mi sembra che tocchiamo il punto di sfida e di valore del nostro lavoro come AltraScienza – si possa mantenere questo assetto senza nessuno scivolamento verso le pseudoscienze o il pensiero magico.

    Siamo anche confortati dal pensiero dei grandi, a ben vedere: vi segnalo al proposito un interessante post del sito Jung Italia, che trovate qui https://www.jungitalia.it/2018/11/01/mito-scientifico-illusione-jung-galimberti/

    Per ritornare al tuo post, ebbene, nemmeno io scambierei un amuleto regalatomi da una persona cara con uno uguale in tutto e per tutto; anzi, direi, che perdita di umanità, di profondità umana, sarebbe livellarsi ad un livello così anaffettivo da poter fare lo scambio! Sono ben consapevole che gli oggetti sono uguali, in senso molecolare. Ma rivendico il diritto – squisitamente metascientifico (non antiscientifico) – di aver investito uno dei due oggetti con un “surplus” affettivo per me fondamentale. Uno dei due amuleti ha un valore aggiunto, ormai. Ad uno strato diverso da quello scientifico, ma reale.

    Ci sarebbe altro da dire, tanto altro: per esempio, la conoscenza poetica, che procede per sintesi e alchimie di parole, per arrivare ad un livello di percezione del vero spesso preclusaci da un metodo rigidamente analitico, è scienza? La sincronicità di Jung, alla quale io sento di dar fiducia, è scienza? Ma in fin dei conti, restringere la modalità di interfaccia con il reale alla sola scienza, sgretola l’affidamento stesso della fede in maniera velenosa e ci consegna ad una teologia “male-detta” (nel senso, detta con strumenti sbagliati) dove regnano purtroppo quelle affermazioni desolanti e inquinanti “viviamo in un universo indifferente etc…” che sono solo espressione di un disagio di cui prendersi cura.

    Da curare, per imparare a guarire aprendoci all’altrove, alla meraviglia di una eccedenza non quantitativa, non misurabile: come ogni civiltà sana ha sempre, sempre, sempre fatto…

    Grazie!

  4. A me pare che proprio lo sguardo scientifico dovrebbe aiutarci a distinguere la superstizione dalla dimensione simbolica del vivere.
    Da una parte, il rischio è che ci spostiamo sull’estremità logico-razionale dove tutto il simbolico viene semplicemente ignorato o condannato. Dall’altra parte, il rischio è di inglobare tutto, in modo acritico, come se fossimo esenti per principio da errori cognitivi e l’intuizione avesse sempre ragione.
    La superstizione provoca purtroppo tantissimo dolore, perché non è soltanto un banale incrociare le dita sperando di propiziare fortuna di fronte all’incontrollabile o augurare in bocca al lupo all’amico che deve affrontare una prova. Superstizione vuol dire anche cadere nelle grinfie di chi sfrutta il nostro bisogno di rassicurazione leggendo carte, fondi di caffè o quant’altro, chi accusa di stregoneria persone, bambini compresi, fino alla loro uccisione come accade ad esempio in Papua Nuova Guinea. Superstizione è espellere le donne quando hanno le mestruazioni come accade ad esempio in Nepal. E questo accade oggi, non è racconto storico di una cultura passata, da libro del Levitico. È il 2018.
    Qui la scienza ha molto da mostrarci e da insegnare.
    Precisamente in una lettura scientifica dell’umano, che sappia riconoscere Homo sapiens nella sua complessità, sta la possibilità di un’opera di discernimento tra ciò che è da superare e ciò che è da riconoscere come proprio dell’uomo.
    iside

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