Affidati

La fede è un a priori antropologico, mi ha spiegato un teologo delle mie parti. L’affidamento è come la matrice interpretativa originaria, il brodo di coltura della Vita.

Lo zigote si costituisce perché altre due persone gli danno vita. Nel traffico placentare il feto pesca fiducioso preziose sostanze e rimette ciò che non gli serve e che viene riassorbito per l’eliminazione. Dal seno materno il neonato succhia il nutrimento, abbandonato nelle braccia del genitore. È il disagio del bisogno non soddisfatto che fa contrarre i pugni. La fiducia corrisposta rilassa.

Con il bambino, cresce il sistema nervoso che gli fa riconoscere l’altro nel rispecchiarvisi dentro. Ti vedo muovere e la mia corteccia motoria si accende: ti riconosco e riconosco la tua smorfia di dolore come il tuo sorriso di contentezza. Il mio corpo assume le tue sembianze, mi metto nei tuoi panni, scendo sotto la tua pelle.

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Sentire, by the pricking of my thumbs

Nella nostra usuale egocentratura, siamo soliti pensare che solo noi esseri umani siamo in grado di “sentire”. Nella nostra magnanimità, comunque, siamo disposti a concedere l’attributo di senziente anche agli animali, ma che siano “superiori” cioè vertebrati, altrimenti velocemente togliamo loro le mostrine della sensibilità.

Le piante, invece, non sono proprio prese in considerazione. Si è mai visto che le piante possano “sentire”? Sono ottimi ornamenti, gran guadagno per una dieta più sostenibile e salutista, ma per il resto stanno ferme e non fanno niente.

 

Il team di Monica Gagliano all’Università dell’Australia Occidentale ha accettato la sfida e ha studiato la risposta delle piante ai suoni. Il rumore dell’acqua pare particolarmente attraente, al punto che esse orientano la crescita delle radici verso la sorgente sonora fino a raggiungerla. La riproduzione sperimentale del rumore della masticazione delle foglie da parte di un bruco produce invece una sorta di “acquolina” difensiva e la pianta prepara l’armamentario chimico che emetterà non appena un bruco inizierà effettivamente a mangiucchiarle le foglie.

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Storie

 Ascoltavo un paleoantropologo raccontare una storia a partire da frammenti di ossa di mastodonte ritrovati in California, accanto ad alcune pietre. È affascinante vedere come da un mucchietto di ossa e denti spezzati, ma in quel particolare modo, accanto a pietre ma di quel particolare tipo, si possa ricostruire la traccia della presenza umana in Nord America.

Si pensava che i primi Homo sapiens fossero arrivati, in quello che poi avremmo chiamato il Nuovo Continente, tra i 17.000 e i 40.000 anni fa, attraverso lo stretto di Bering, allora terraferma. Ma l’alloggiamento geologico di quei pezzetti di ossa di un animale estinto ci fa balzare indietro di 100.000 anni almeno. La curiosità si accende, dobbiamo colmare i vuoti, non riusciamo a resistere. E la narrazione parte.

Come seduti attorno al falò gli antichi raccontavano storie di origini lontane, così oggi raccontiamo storie di antichi a partire dalle poche tessere disponibili per aggiungere al puzzle ancora qualche colore e qualche forma. In attesa che altri elementi vengano alla luce.

Le superfici di rottura delle ossa californiane fanno presagire una frantumazione premeditata che solo Homo sapiens avrebbe potuto operare. Ci hanno riprovato i paleoantropologi: si sono messi di buon grado, con pietre simili a quelle trovare nel sito archeologico e hanno iniziato a colpire ossa analoghe ottenendo risultati simili ai ritrovamenti.

Un pugnetto di ossa, poi ci mettiamo alla prova se siamo capaci di fare altrettanto e di lì dipaniamo la storia di uomini e donne lontani che hanno abitato terre considerate senza umanità fino a ben più tardi.

Per fare scienza abbiamo bisogno di metodo, che sia quello scientifico delle osservazioni sul campo, delle prove in laboratorio, delle misurazioni, delle valutazioni. Ma non possiamo fare a meno delle storie per riempire i buchi nelle tabelle.

Seppure raccogliamo big data, che richiedono poi anni o decenni per essere analizzati, non possiamo sottrarci ad ipotizzare, creare teorie, cioè immaginare mondi, dipingendo con la narrazione ciò che la ragione e il dato non riescono a dirci.

Non possiamo fare a meno, di raccontare storie…

Se guardiamo al profondo universo non facciamo di meno. Nuovi pianeti vengono ormai scoperti a getto continuo, quasi quasi non fanno più notizia. Dalle immensità siderali, basta il transito di un pianeta davanti alla sua stella e la spettrometria di pochi elementi per farci sognare di mondi remoti, di abitanti possibili, di compagni di viaggio, magari cugini batteri, che potrebbero succhiare energia vitale da sorgenti di idrocarburi. Il richiamo delle stelle, benché misurato, ha le stesse caratteristiche di quello degli antichi.

Sognare, immaginare, raccontare: non sono verbi ortodossi per la scienza, ma forse è tempo di rivedere la dottrina, per essere certi di non lasciare indietro nulla che ci possa aiutare a capire chi siamo, cosa ci facciamo qui su questo pianetino. L’illusione della purezza del metodo ci allontana schizzinosi per paura della contaminazione, mentre soltanto con le mani immerse nella terrestrità, tutta intera, potremo davvero indagare il senso del nostro vivere.

Abbiamo adorato la ragione per secoli, abbiamo zoomato su questa parte di noi eleggendola a nobile dama, poi monarca assoluta e perciò tiranna. Ma chi è lasciato indietro tiene il suo posto, brontolio di sottofondo, voce inascoltata e non riconosciuta, ha le sue strategie per esistere comunque, perché l’emozione è primaria, il gesto precede la ragione. E sono tutt’uno.

Ragione non vale di più, ha frainteso: si vince soltanto se si fa gioco di squadra. La sintesi è sapienza.

Incontro di mondi

Una piccola fetta di torta giallina sembra raccogliere tutta la sostanza delle nostre vite, anzi della vita dell’intero universo. 4,9% dice il dato nudo e crudo, sul grafico.

È un po’ come guardare il mondo da un oblò, come cantava Gianni Togni, ma a differenza del cantautore non ci annoiamo affatto. Perché a prenderla dall’altro lato, c’è un 95,1% tutto da scoprire e pare che sia piuttosto affollato.

 

L’energia oscura farebbe espandere l’universo, la massa oscura darebbe ragione di effetti gravitazionali. Nulla di certo, teorie tratteggiate per spiegare come funzionano le cose, se si dà credito alle prove indirette sottese ad alcuni dati sperimentali.

La psicoanalisi ci ha sbattuto in faccia la vastità di un magmatico inconscio che erutta da bocche da fuoco quando deve sfogare impulsi incontrollabili. E poi si placa, fino all’eruzione successiva. Quello che ci è consentito di vedere è l’effetto dell’eruzione, ma il magma sottostante rimane fucina nascosta, in cui memorie di esperienze si rimodellano in un processo digestivo che produce rigurgiti, brufoli e magari acne tutt’altro che giovanile.

Davvero basta la ragione per la conoscenza di un universo così variegato? Davvero l’intuizione è strumento da escludere? L’emozione, che con l’azione, è antecedente al pensiero, come ci mostrano ora le neuroscienze, non ha proprio nulla a che vedere con la ragione? Eppure ne è la premessa. La corteccia arriva seconda. L’emozione e il gesto tagliano il traguardo per primi e ci fanno sentire ed agire prima di ragionare.

Umiltà: da qui parte Marco Castellani, nel suo intervento alla conferenza Astrofisica e Poesia, tenutasi a Villa Sora (Frascati) l’8 aprile 2017, per il ciclo “I tanti volti dell’umano.

Oggi lo studio dell’uomo e insieme lo studio del cosmo suggerisce proprio un atteggiamento di umiltà, derivante essenzialmente dal limpido riconoscimento, che non è mai stato così chiaro, di quante cose noi non sappiamo…. Mai il celebre motto socratico “so di non sapere”, a pensarci bene, è stato così manifesto, solo che lo si voglia guardare.

Partiamo da basso, ripartiamo da capo. A capo chino, chiamando a raccolta tutte le capacità umane, senza rifiutare nulla, senza escludere nulla.

Certo la scienza ha bisogno di discernimento, per stare alle regole del metodo. Forse però oggi la conoscenza è arrivata ad un punto in cui le è richiesto di fare un salto quantico per coagularsi ad un livello di sintesi più ampia, inglobante, dagli orizzonti più larghi.

Forse è giunto il tempo di avere uno sguardo a lunga gittata, inclusivo, che sappia fare sintesi di ogni forma di conoscenza umana, fino alle soglie della sapienza.

Senza mescolamenti omogeneizzanti, dove sia sempre possibile delineare lo specifico disciplinare e di ambito, dove però allo stesso tempo non ci siano barriere invalicabili, ma soltanto confini porosi su cui lo scambio, il confronto, la parola mediatrice si facciano luogo di incontro reale tra mondi che finalmente si riconoscono.

E forse così quella materia oscura e quell’energia oscura si potranno chiarificare.

Almeno un po’.

Al dio protocollo

Sul Monte Olimpo della Medicina, il dio Protocollo va per la maggiore. I suoi sacerdoti, gli OperatoriSanitari, presiedono austeri alle cerimonie sacre, dove la ritualità è strettamente scandita.

Profano è introdotto nell’atrio del tempio dove Operatore Uno scartabella il TestoSacro/ManualeDiagnostico e pone un’etichetta sulla sua fronte. Dalla funzione battesimaleProfano emerge con una nuova identità e un nuovo nome: sarà riconosciuto per la sua diagnosi, espressa con sigla in codice e nome esteso. A questo punto, X — d’ora in poi lo chiameremo così per ragioni di privacy — viene ammesso alle varie navate del tempio dove si avviano le celebrazioni al dio Protocollo.

 

Operatore Due consegna a X la lista delle libazioni che dovrà eseguire in via Crucis, negli altri edifici del complesso templare. Operatore Tre, avendo esaminato attentamente il TestoSacro/LineeGuida, verifica che X abbia effettuato tutte le abluzioni del caso: TAC, RMN, esami del sangue, esame delle urine. Troppi asterischi, peccati capitali! La tabella dice che la sua pressione sanguigna non è adeguata all’età, il BMI è troppo elevato: se proprio non riesce a perdere peso, veda almeno di allungarsi in statura, così da entrare nei valori previsti dalla griglia. Il dio Protocollo è un dio intransigente, non ammette sgarri alle sue regole.

Essendo X un peccatore irrefrenabile, restio alla conversione spontanea, Operatore Tre non ha altra scelta che prescrivere una terapia. X azzarda una domanda, prova a sottrarsi a ciò che non capisce, poi tenta la via della contrattazione, magari si potrebbe regolare il dosaggio, con quel farmaco ha già avuto problemi in passato. No, assolutamente no! Il dio Protocollo è chiarissimo al riguardo e Operatore Tre va al tabernacolo, estrae l’effige del dio e fa giurare X che seguirà rigorosamente tutti i comandamenti.

Dopo qualche tempo, ritornato al tempio per la cerimonia di verifica, X sa in cuor suo di aver molto peccato e le analisi non mentono, gli asterischi sono lì a mostrargli la sua infedeltà al dio. Operatore Quattro lo redarguisce aspramente, i suoi parametri sono ancora fuori tabella. Questa insubordinazione non può essere tollerata. Il dio Protocollo è inequivocabile: chi non obbedisce alle sue norme sarà immolato sul suo altare. X prova a balbettare qualche giustificazione in proprio favore, cerca di impietosire gli OperatoriSanitari, ma tutto è inutile. Nessuna inflessione è ammessa dal dio Protocollo.

Si apre così il rito finale, sull’altare arde il fuoco sacro, X dice le sue ultime orazioni.

Ad assistere alla scena, da dietro un trittico di pregio, Operatore Cinque sente un moto nel cuore. Possibile che sia proprio così? Eppure aveva giurato con Ippocrate, non con Protocollo, ricorda. Per X ormai è troppo tardi, ma per Y, che lo sta aspettando nella cappella laterale, forse si può fare qualcosa. Forse la potenza dominatrice del dio Protocollo non è del dio, ma dei suoi sacerdoti che, seguendo una liturgia senza sbavature, hanno smesso di interrogarsi sull’umano e hanno attribuito al dio Protocollo poteri che non ha, intenzioni che non ha. Forse è tempo di ripensare la sua teologia.

Con coraggio, Operatore Cinque prende in mano l’effige del dio, legge con attenzione il suo TestoSacro e sottolinea le migliaia di volte in cui si usa il condizionale, si mettono dei forse, si danno percentuali e non certezze, si indicano tendenze e non assoluti, si consiglia e non si impone.

Operatore Cinque guarda negli occhi Y, al quale innanzitutto restituisce il suo nome, perché non ha più paura della normativa sulla privacy. Lo chiama per nome, e inizia la rinascita. Operatore Cinque ascolta cosa il suo paziente ha da raccontare, come si sente, quali sono le sue sensazioni; solo dopo consulta le Linee Guida, guarda le analisi, decodifica le tabelle. Riconosce un essere umano tutto intero, parte integrante del team che coopera per la cura.

Protocollo in realtà non voleva questa distorsione del suo annuncio, perché ci deve sempre essere spazio per adattare le indicazioni generali alla situazione personale. Scambiare i mezzi con i fini è un gioco pericoloso che porta a sacrificare un essere umano al culto del sabato.

Non c’è altra grandezza fondamentale se non la creatura che si ha di fronte: questo è il primo e più importante dei comandamenti, la bussola che orienta tutto il resto.

Abbiamo bisogno di una medicina che si avvicini alla persona con la finezza dell’orafo che maneggia piccole cose delicate, una medicina che sappia trarre il massimo dalle acquisizioni scientifiche ma le sappia anche interpretare in un contesto più ampio. Abbiamo bisogno di medici che non si pongano come tecnici aggiustatori di meccani da risistemare, ma come esseri umani in colloquio con altri esseri umani, medici per i quali il successo terapeutico non può fare a meno della relazione, che sia la relazione medico-paziente, o la relazione tra le discipline.

Tra caso, casaccio e contingenza…

Le cose non vengono mai da sole. Neanche il caso. In genere si appaia con la necessità, o forse, lo faceva un tempo. Ora sta cambiando abitudini. Pare che i due siano più propensi ad amalgamarsi intimamente, al punto da lasciare emergere la contingenza, quel microambiente pieno di interconnessioni da cui vediamo fiorire i fenomeni.

La relazionalità è la struttura portante della contingenza: ogni evento che accade lo fa in quanto correlato in modo millimetrico a ciò che lo circonda e, così, via via, per interposte connessioni fino ad intrecciare tutta la Realtà. Così sulla Terra sentiamo la lieve perturbazione delle onde gravitazionali prodotte dalla fusione di due buchi neri a 1,3 miliardi di anni luce da noi — altro che il battito d’ali di una farfalla che provocherebbe un ciclone sull’altro lato del pianeta!

La contingenza, però, non è soltanto relazionalità a grana fine. È anche la condizione di possibilità che permette all’apertura con cui siamo posti nel mondo di potersi esprimere in termini creativi. Costituisce l’impalcatura della libertà.

Spesso protestiamo che il caso non esiste perché, ho il sospetto, contrapponiamo il caso al senso e leggiamo il senso preminentemente nella forma dei rapporti di causa-effetto tra i fenomeni. Così un fenomeno non è casuale ma ha un senso se è dentro un esplicitato progetto a priori, in cui tutti i pezzi trovano la loro esatta collocazione in una rete di causalità ben disegnata.

La mia percezione è che la questione sia più dinamica e fluida.

Forse quando rigettiamo il caso in realtà rigettiamo il casaccio: una confusione che non ha governo, di nessun tipo.

Le cose, dunque, non accadono a casaccio, ma per contingenze di eventi prossimi che, a scalare, danno effetti man mano meno evidenti, propagandosi ad ampio raggio e non più interpretabili con rapporti stretti di causa-effetto.

In tal modo la vita evolve come costante adeguamento reciproco delle sue componenti, nella novità presente di un caleidoscopio sempre in rotazione.

Il senso allora non è posto come dato aprioristico, ma emerge dalla Realtà nel suo svolgersi e diventa direttamente proporzionale alla profondità della relazione tra la libertà della creatura e lo Spirito Creatore.

Posso quindi interpretare la mia vita e costruirne il senso, se incarno la mia libertà in responsoriale relazione con quello Spirito che è l’Inaugurante benedicente senza essere causa immediata di tutto ciò che accade, il Sostegno vigile ma non interferente, la Destinazione accogliente ma non la fatalità della vita.

“Caos è anzitutto il modo di dire la differenza tra la presunta semplicità della natura e la sua effettiva complessità: non è quindi la scusa per rassegnarsi al caotico, ma la spinta per esaminare ciò che è più difficile ossia il complesso.”(Giorgio Bonaccorso)

Forse non è poi così semplice

Provate a dare in mano ad un bambino un nuovo gioco, di cui si intravedano i meccanismi interni. La sua curiosità andrà a mille e così inizierà la sfida. Tenterà di staccare qualche parte, di smembrare il giochino fino a denudarlo, ritrovandosi con una serie di pezzetti da cui difficilmente però saprà ricostruire l’oggetto da cui era partito. Tuttavia, ha visto cosa c’è dentro il suo nuovo regalo, ha preso in mano una vite, ne ha capito l’alloggiamento e il funzionamento. Certamente ha guadagnato delle conoscenze, ma ha rotto il gioco che funzionava se tutto intero.

Questo assomiglia molto a ciò che fanno gli scienziati nel loro lavoro. Infatti, il criterio di base del metodo scientifico è la semplificazione. Dato che i fenomeni da studiare sono complessi, non siamo in grado di affrontarli così come sono e, come il bambino, abbiamo bisogno di smembrare, frazionare, suddividere per portarci su unità di studio più semplici, tanto semplici da poterle ridurre a misura delle nostre capacità manipolatorie.

Con la fisica e le questioni di sua pertinenza, le cose ci vanno piuttosto bene. Ricordiamo tutti la storiella di Galileo che buttava gravi dalla torre di Pisa e così imparava a descrivere matematicamente il moto accelerato dei corpi in caduta libera. KepleroNewton e le loro equazioni ci permisero di calcolare le orbite dei pianeti, fino ad arrivare alle onde gravitazionali previste dalla teoria della relatività generale di Einstein e finalmente rivelate per la prima volta a dicembre 2015.

Matematica, descrizioni, osservazioni, sperimentazioni qui riescono a fare gioco di squadra.

Per poco però che ci inoltriamo nell’ambito dell’organico, le cose iniziano a complicarsi. Per il comportamento cellulare è già più difficile isolare i vari componenti e capirne la dinamica a partire dalla modifica di un singolo elemento, perché non si riesce realmente ad enucleare un singolo fattore per attribuirgli tutta la causa della conseguenza che osserviamo. La faccenda si fa ancora più ardua per un organismo pluricellulare, e su su dentro l’arbusto evolutivo. Gli organismi, poi, non sono individualità separate, ma vivono in contesti, in relazione tra di loro e con l’ambiente, quindi il pedaggio della frammentazione si fa vertiginoso. Non parliamo poi di applicare il metodo scientifico alle scienze sociali, psicologiche ecc.

Lo spezzettamento in parti però mi pare paradigma del sistema che si sta dissolvendo. Come se questo approccio fosse ormai insufficiente e, almeno in parte, anacronistico, come se anche la scienza avesse bisogno di trovare nuovi criteri su cui fondare il suo metodo.

E se l’integrazione del suddiviso diventasse criterio aggiuntivo imprescindibile per l’indagine del mondo?

Se nell’articolazione del reale, i livelli organizzativi superiori non sono la semplice somma algebrica dei pezzi che li costituiscono, allora lo studio dell’intero, brulicante di relazioni, deve avere una sua dignità in sé. Pena la perdita non soltanto di informazione, ma anche di senso.

E se le discipline, attraverso cui cerchiamo di indagare il nostro mondo, scoprissero un nuovo livello di relazionalità che consentisse loro una forma dialogica di messa in comune delle specificità, per tratteggiare un quadro più organico, in ascolto del reale? La giustapposizione della multidisciplinarità non basta più e l’interdisciplinarità è ancora troppo poco; c’è bisogno di un intreccio profondo dei saperi per una nuova sintesi sapienziale.

Forse la precisione millimetrica e il colpo d’occhio panoramico sono in attesa di coniugarsi nel ritmo di un nuovo passo.

La causa mi fa effetto

Premo l’interruttore e la luce si accende. Anche la sintassi sembra dirlo. Bastano due coordinate legate da una “e” e il gioco è fatto. Eccoci nella trappola di un pensiero che usa l’euristica della causalità così frequentemente da non aver più neanche necessità di esplicitarla. È sufficiente la congiunzione ”e”, possiamo fare a meno delle più classiche “perché, poiché, siccome, in quanto”.

Pare proprio che abbiamo un disperato bisogno di trovare una causa, e che sia la più diretta possibile, per ogni accadimento nella nostra vita. Il metodo scientifico in questo è maestro. Si studiano i fenomeni e si va immediatamente alla ricerca di ciò che li ha provocati. In medicina, l’eziologia è un aspetto fondamentale per la formulazione di una diagnosi.

Questa ossessione per la causalità, però, rischia l’abuso, facendoci vedere anche ciò che non c’è. Rischiamo cioè di irrigidire il pensiero, di incanalarlo dentro sentieri troppo stretti, senza più permetterci lo sguardo ampio di chi apprezza il panorama. Così di causa in causa fino alla Causa Prima. E anche Dio è finito in trappola. Appunto lo chiamiamo in causa per ogni avvenimento che ci accade: non cade foglia che Dio non voglia, dice il vecchio adagio. Tutto diventa direttamente collegato alla volontà divina, nel bene e nel male.

Forse abbiamo bisogno di usare “unità di misura” diverse a seconda dell’ordine di grandezza, anche perché la Vita nel suo complesso non è la semplice somma dei singoli eventi. La Vita pare organizzata per livelli di cui uno non è immediatamente deducibile dai precedente; il grado di complessità superiore non è l’esito della giustapposizione addizionale degli elementi che compongono il livello organizzativo inferiore. L’emersione della coscienza non pare semplicemente l’aumento quantitativo di abbozzi comparsi nei primati. La struttura degli organismi pluricellulari non scaturisce direttamente dalla struttura unicellulare: la sequoia non la deduco da Acetabularia. Dalla struttura subatomica non ricavo immediatamente le caratteristiche della materia per come la sperimentiamo al nostro ordine di grandezza. C’è un’opera di sintesi che richiede un salto quantico.

La causalità è contingente e vincolante e mi pare riesca a descrivere le relazioni all’interno degli elementi di uno stesso livello di complessità, in parte anche tra un livello e l’altro, ma ciò che fa sintesi non è spiegabile soltanto in termini di causalità. Se lo fosse, saremmo dentro un grande meccano in cui si assemblano i pezzi a partire da un progetto esterno e già definito in partenza, ma la nostra esperienza di vita non ci dice questo. Siamo l’esito di un apprendimento continuo che guarda all’altro/Altro per trovare la propria immagine, fin dal grembo materno. È una questione di relazioni sempre in divenire, in raffinamento costante, di carezze e di affondi nella nostra plastilina.

Concentrati alla caccia della causa e della Causa Prima indietreggiamo per trovare l’inizio: lo fa lo scienziato, è il suo compito, l’avanzamento tecnologico gli consente di essere sempre più preciso su quando ha avuto inizio il nostro Universo, la vita sulla Terra, la storia di Homo sapiens.

Ognuno di noi ha però una sete inestinguibile di conoscere l’origine, propria come del Tutto, di conoscere Ciò che sostiene la Vita, adesso e poi adesso e ancora adesso, nel presente eterno.

La Realtà non proviene (soltanto) da una Causa Prima, ma da Qualcosa di molto più flessibile e morbido, da un pensiero che la pensa, da un’intenzione che la regge, da una parola che la genera.

L’intenzione è univocamente buona, il Padre è buono, l’Unico che può essere chiamato tale, senza ambiguità. L’intenzione buona alimenta il pensiero/parola creativo, la generazione è ariosa e dà vita ad un altro-da-Sé che proprio perché possa essere accreditato come altro deve essere posto a distanza di sicurezza e per dargli dignità piena gli deve essere riconosciuta la libertà. Ogni tipo di creatura ha il suo grado di libertà e per noi umani la dinamica ha i tratti dell’apprendimento.

Il gioco sta nell’imparare a trovare la giusta distanza, che vuol dire abitare la massima differenza dal Creatore, e allo stesso tempo, vivere con Lui in massima comunione, che è poi il movimento della relazionalità che lo Spirito esprime. È questo l’insegnamento che possiamo trarre dal mito con cui comincia il libro della Genesi.

C’è un mondo inaugurato ad ogni istante dalla buona intenzione del Padre, promesso come compiuto in ogni istante nel lavoro di rimodellamento di sé che ci conduce, ad ogni passaggio, un po’ più vicino al vero noi stessi, a ciò che stiamo da sempre diventando. Un lavoro di cesello, senza fine, e la morte porterà un cambiamento di stato, un ordine superiore di complessità, ancora una volta indeducibile dal grado attuale, per sperimentare chissà quali eccitanti nuovi percorsi di conoscenza.

Presente anche su http://www.darsipace.it/2016/09/29/la-causa-mi-fa-effetto/

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