Forse non è poi così semplice

Provate a dare in mano ad un bambino un nuovo gioco, di cui si intravedano i meccanismi interni. La sua curiosità andrà a mille e così inizierà la sfida. Tenterà di staccare qualche parte, di smembrare il giochino fino a denudarlo, ritrovandosi con una serie di pezzetti da cui difficilmente però saprà ricostruire l’oggetto da cui era partito. Tuttavia, ha visto cosa c’è dentro il suo nuovo regalo, ha preso in mano una vite, ne ha capito l’alloggiamento e il funzionamento. Certamente ha guadagnato delle conoscenze, ma ha rotto il gioco che funzionava se tutto intero.

Questo assomiglia molto a ciò che fanno gli scienziati nel loro lavoro. Infatti, il criterio di base del metodo scientifico è la semplificazione. Dato che i fenomeni da studiare sono complessi, non siamo in grado di affrontarli così come sono e, come il bambino, abbiamo bisogno di smembrare, frazionare, suddividere per portarci su unità di studio più semplici, tanto semplici da poterle ridurre a misura delle nostre capacità manipolatorie.

Con la fisica e le questioni di sua pertinenza, le cose ci vanno piuttosto bene. Ricordiamo tutti la storiella di Galileo che buttava gravi dalla torre di Pisa e così imparava a descrivere matematicamente il moto accelerato dei corpi in caduta libera. KepleroNewton e le loro equazioni ci permisero di calcolare le orbite dei pianeti, fino ad arrivare alle onde gravitazionali previste dalla teoria della relatività generale di Einstein e finalmente rivelate per la prima volta a dicembre 2015.

Matematica, descrizioni, osservazioni, sperimentazioni qui riescono a fare gioco di squadra.

Per poco però che ci inoltriamo nell’ambito dell’organico, le cose iniziano a complicarsi. Per il comportamento cellulare è già più difficile isolare i vari componenti e capirne la dinamica a partire dalla modifica di un singolo elemento, perché non si riesce realmente ad enucleare un singolo fattore per attribuirgli tutta la causa della conseguenza che osserviamo. La faccenda si fa ancora più ardua per un organismo pluricellulare, e su su dentro l’arbusto evolutivo. Gli organismi, poi, non sono individualità separate, ma vivono in contesti, in relazione tra di loro e con l’ambiente, quindi il pedaggio della frammentazione si fa vertiginoso. Non parliamo poi di applicare il metodo scientifico alle scienze sociali, psicologiche ecc.

Lo spezzettamento in parti però mi pare paradigma del sistema che si sta dissolvendo. Come se questo approccio fosse ormai insufficiente e, almeno in parte, anacronistico, come se anche la scienza avesse bisogno di trovare nuovi criteri su cui fondare il suo metodo.

E se l’integrazione del suddiviso diventasse criterio aggiuntivo imprescindibile per l’indagine del mondo?

Se nell’articolazione del reale, i livelli organizzativi superiori non sono la semplice somma algebrica dei pezzi che li costituiscono, allora lo studio dell’intero, brulicante di relazioni, deve avere una sua dignità in sé. Pena la perdita non soltanto di informazione, ma anche di senso.

E se le discipline, attraverso cui cerchiamo di indagare il nostro mondo, scoprissero un nuovo livello di relazionalità che consentisse loro una forma dialogica di messa in comune delle specificità, per tratteggiare un quadro più organico, in ascolto del reale? La giustapposizione della multidisciplinarità non basta più e l’interdisciplinarità è ancora troppo poco; c’è bisogno di un intreccio profondo dei saperi per una nuova sintesi sapienziale.

Forse la precisione millimetrica e il colpo d’occhio panoramico sono in attesa di coniugarsi nel ritmo di un nuovo passo.

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Autore: Iside Fontana

Laureata in Scienze Biologiche, cristiana, appassionata dell’interrogazione teologica e di tutto ciò che si cimenti nel tentare una sintesi del pensiero per una conoscenza profonda del mistero della vita. Single.

7 pensieri riguardo “Forse non è poi così semplice”

  1. La “cura dell’uomo in una visione globale ed unitaria e nel suo rapporto imprescindibile con la natura”[www.luimo.org/l-associazione/i-fini] è principio in omeopatia da Samuel Hahnemann in poi, nonostante molti siano stati e siano i detrattori (in buona e più spesso ahimé in cattiva fede) di questa speciale disciplina.
    Voglio ancora sperare che l’uomo sappia sempre più aprirsi all’ascolto dell’Universo con libera mente e libero cuore e, anche, che sappia sostituire all’uso rapace un sapiente-umile-rispettoso-creativo vivere “di” e “in” ciò che prodigiosamete gli è stato concesso.
    Grazie a Iside per il suo articolo.
    Buona giornata

    1. Cara Maria,

      al di là del fatto dell’efficacia o meno dell’approccio omeopatico (che non è cosa di nostra pertinenza qui), concordo con te –
      e direi ovviamente con Iside – sull’importanza che riveste l’approccio “integrato” verso il paziente, o più in generale verso l’uomo.

      C’è molto da fare, anche nel riscoprire una sana sapienza medica che ha comunque sempre considerato necessario prendere in esame tutto l’uomo, senza suddividerlo artificialmente in settori, di competenza poi di differenti discipline, in un delirio di iperspecializzazione che sembra non avere confini.

      Del resto, è come con le particelle elementari: l’operazione di dividere ed isolare, ad un certo punto, semplicemente non ha più senso. E sono proprio gli scienziati a dirlo.

      Un caro saluto,
      Marco

      1. Si, Marco. Non stavo in realtà proponendo un confronto/scontro tra scuole, leggendo l’articolo di Iside l’associazione mi si è imposta alla mente e quindi l’ho scritta. Provo a dire in altro modo.
        Sono stupita, persino commossa, quando vedo un ciuffo d’erba che spunta e resiste in mezzo ad una spianata di cemento. In questo caso l’omeopatia è per me il ciuffo d’erba.
        Il cemento ha le sue utilità, ovvio, le perde tutte e diventa dannoso se si ignora con determinazione feroce “la vita” (non trovo un’altra parola), che non è solo la somma delle parti è un di più, da studiare con trepidazione.
        Buona Domenica
        Maria

        1. Cara Maria,

          sì ti comprendo bene. L’idea del ciuffo d’erba è suggestiva e ci parla direttamente al cuore. Ci dice che la vita resiste, non viene schiacciata dal pensiero dominante, semplificante all’eccesso, fatto di “muri di cemento” che separano e ingabbiano. L’approccio globale al vivere non è appena uno slogan, è una cosa da scoprire – anche con sofferenza – e provare a portare nella vita ordinaria.

          Provare, sperimentare che nella vita c’è già, volendo, “un’altra vita”. E la vita eccede sempre, felice-mente, ogni nostro muro, ogni nostro schematismo, ogni arida catalogazione.

          Grazie!

  2. Speriamo in questo nuovo stile sapienziale, al quale tutti, purchè umili e attenti, potremo contribuire. Ci penserò, impegnandomi a vivere con profondità ogni esperienza di vita! Mariapia

  3. La vita ha una sovrabbondanza che fa esplodere tutte le nostre rappresentazioni. Non resta che viverla “da dentro”, pienamente, eternamente…
    iside

  4. Mi ritrovo molto in questa proposta. La Vita non può essere compresa, e tanto meno curata, nella sua complessità spezzettandola in parti. Si può ottenere un miglioramento della prestazione cardiaca attraverso farmaci che ne regolino opportunamente i meccanismi di contrazione muscolare e conduzione elettrica, ma altro è occuparsi di quella persona nel suo insieme. Persona che, nel suo esistere, nasconde (o rivela) un senso, non distinguibile e non separabile dal resto (anche perché non c’è nessun resto!). E’ anche vero che se il cuore di quell’individuo non pompa più abbastanza la sua vita terrena può cambiare drasticamente, fino anche a terminare. Allora è innegabile l’apporto che ha dato alla medicina un approccio scientifico di per sé molto riduttivo. Tutto sta nel non impietrirsi nei metodi.
    Tra le tante sfide di questo tempo c’è anche un nuovo modo di conoscere. Talvolta sembra di aver avuto in passato metodi migliori degli attuali, per esempio attraverso una ricerca olistica nella medicina, ma credo ci fossero molti limiti anche allora. Non si tratta, infatti, di comprendere quale sia il metodo migliore per studiare l’esistenza, ma giungere a nuove modalità che sintetizzino e allo stesso tempo superino quelle utilizzate sino ad ora.
    Credo sia necessaria una capacità di vedere l’insieme piuttosto che il dettaglio, unire piuttosto che separare, sentire piuttosto che puro ragionare.
    Una domanda che mi pongo è: come esprimere questo? La fisica e la matematica hanno regole e codici precisi, ma anche per questo limitati. Serve, allora, anche un nuovo linguaggio che sia in grado di contenere ciò che ci ha consentito di arrivare fino a qui, senza negarlo o contraddirlo, e di essere allo stesso tempo aperto e fluido, adattabile alla contemporaneità del pensiero.

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